NERO/NOIR – "Il fiammifero acceso non scaccia il buio ma si limita a rivelarne il terrore": William Faulkner e il cinema
La prosa di Faulkner è un fluire disorientante, feroce, precario, che disegna un presente rotto, ripiegato su se stesso, un tempo immobile e senza speranza che condanna l’uomo a vagare nella sua impossibilità e che continua a specchiarsi nel passato senza riuscire a cancellare le colpe in esso seppellite
Sarà la stessa Hollywood, comprando i diritti di alcuni dei suoi lavori, a liberare Faulkner dal tanto odiato mestiere di sceneggiatore. I tentativi di far vivere sul grande schermo Santuario, Requiem per una monaca (1951), Non si fruga nella polvere (1949), L’urlo e il furore, Oggi si vola, Il borgo (1940), I saccheggiatori (1962), si rivelano però essere, nella maggior parte dei casi, un’occasione perduta e, escludendo Il trapezio della vita di Douglas Sirk, incredibilmente nessuno di essi si appropria delle atmosfere noir nelle quali Faulkner sprofonda le storie labirintiche e spettrali di generazioni e di famiglie: i Compson, i Sutpen, i Sartoris, gli Snopes, e il suo Sud disgregato, colpevole e sconfitto, corroso dall’avanzare di una nuova razza cha ha infettato l’America e ha annullato l’individuo. Non si confrontano appieno con l’oscurità che avvolge i personaggi di Faulkner nemmeno The Story of Temple Drake di Stephen Roberts e Sanctuary di Tony Richardson, tratti da quel romanzo, Santuario (nel caso del film di Tony Richardson, anche da Requiem per una monaca), che disegna così potentemente, nella sua struttura cupa, macabra e soffocante, che non permette fughe in avanti, ma solo continui ritorni, la traiettoria immersa in una perversa e crudele ambiguità di corpi persi e arresi in un mondo nel quale non esiste morale, giustizia o speranza. La perdizione e la perversità mista d’innocenza e falsa inconsapevolezza di Temple Drake riusciranno a vivere sul grande schermo solo passando attraverso James Hadley Chase, nell’adattamento cinematografico firmato da Robert Aldrich di Niente orchidee per Miss Blandish. In questo scenario, in verità, costituiscono una parziale eccezione la pellicola di Clarence Brown, Non si fruga nella polvere (che riesce a far vibrare le contraddizioni di quel Sud malato raccontato da Faulkner e a cogliere, anche se non pienamente, la dipartita di Chick dal mondo dell’infanzia per sperimentare il disorientamento frustrante e la dolorosa coscienza della colpevolezza dell’età adulta), e il già citato Il trapezio della vita (nel quale Douglas Sirk tenta di rendere palpabile, pur regalando ai personaggi del film una redenzione invece impossibile nell’universo faulkneriano, la cupa e fredda disperazione e l’abbandono al vuoto che si respirano in Oggi si vola). Per il resto, a rendere così distanti questi film dall'opera di Faulkner, dalla sua contea di Yoknapatawpha, da quell’essere umano disilluso e tragicamente sconfitto che popola l’universo faulkneriano e che Sartre definisce come un uomo «perduto fin dalla nascita e inchiodato alla sua perdizione» è non solo e non tanto la scelta, a volte forse obbligata, molte altre superflua, di semplificare il disordine e il caos che esplodono attraverso le trame di Faulkner e di addomesticare, per passare attraverso le maglie della censura, la perversità, la corruzione e la devianza che pulsa nelle sue narrazioni; a rendere questi film così distanti è soprattutto la loro incapacità di confrontarsi con quell’ambiguità morale e con quel degrado meschino, ma anche disperato, che soffoca l’umanità raccontata da Faulkner, rendendola vittima e carnefice della propria disfatta, e che la conduce alla sconfitta, alla cancellazione e alla dannazione, senza possibilità di salvezza o di redenzione, se non attraverso quella capacità di resistere nella sofferenza, senza tentare di sottrarsi ad essa, che accompagna e ispira il sacrificio di Nancy in Requiem per una monaca e lo sguardo di Disley in L’urlo e il furore, o anche il dolore di Harry Wilbourne in Le palme selvagge (1939) e del reverendo Gail Hightower nel magnifico Luce d’agosto (1932). E’ il mancato tentativo di queste pellicole di confrontarsi con il fluire disorientante, pieno, copioso, feroce e precario, tanto simile alla materia dell’incubo e del cinema stesso, della prosa faulkneriana, fatta di ricordi, di emozioni, di angosce che si sovrappongono, si contraddicono, di ombre che si affollano nel pensiero: la versione cinematografica de L’urlo e il furore, per fare un esempio, elimina del tutto la narrazione sospesa in una zona d’ombra, tra la coscienza e l’idiozia, di Benjy e, soprattutto lo splendido delirio di Quentin strappato a quell’attimo che separa la vita dalla morte, rinunciando al loro enorme potenziale e tradendo non solo il senso di mancanza e di perdita, ma anche il fallimento esistenziale che pulsa attraverso e per mezzo della scrittura di Faulkner e il caos che sottrae e nega ogni senso all’essere umano.
Una scrittura, quella di Faulkner, che non esplicita, ma solo suggerisce l’azione per poi lasciar esplodere i segni e le ferite che essa ha generato, che sottrae cronologicità al tempo per tradurre i movimenti dello spazio interiore e per disegnare un presente rotto, ripiegato su stesso, che Peter Brooks, in Trame, definisce come «una sorta di utopia straziata», un tempo immobile e senza speranza, che continua a specchiarsi nel passato senza riuscire a cancellare le colpe in esso seppellite e che condanna l’uomo – prigioniero di quello stesso tempo al quale tenta di sottrarsi e nel quale finisce invece per scomparire – a vagare nella sua impossibilità.
Il grande sonno – Trailer
Il trapezio della vita – Clip
Niente orchidee per Miss Blandish – Clip
Il romanzo di Mildred – Trailer