NSOE – Nuovo Cinema Iraniano: l'isola che c'è

C'è un cinema iraniano, sempre più consistente, che descrive con pluralità di sguardi le stratificazioni e le contraddizioni del vivere la quotidianità negli spazi labirintici della metropoli e in quelli altrettanto inestricabili dei villaggi, della montagna, delle derive 'senza territorio'. Torna "Nordsudovestest", storica rubrica di Sentieri Selvaggi

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C'è un cinema iraniano, moderno e sorprendente, che sfugge ai codici dentro i quali si configurano le opere e talvolta le filmografie, approdate nei circuiti (dei festival e delle distribuzioni) internazionali. C'è un cinema iraniano, sempre più consistente, che descrive con pluralità di sguardi le stratificazioni e le contraddizioni del vivere la quotidianità negli spazi labirintici della metropoli e in quelli altrettanto inestricabili dei villaggi, della montagna, delle derive 'senza territorio'. Sono parti fondamentali di una cinematografia che gli spettatori italiani, e non solo, conoscono per minimi frammenti. Il cinema iraniano non consiste solo nelle opere (pregevoli, ma che spesso si mantengono nelle forme della ripetizione e delle sue varianti 'sicure') di Abbas Kiarostami, Jafar Panahi, Mohsen Makhmalbaf (il più spregiudicato tra i registi di fama mondiale). I cineasti che da tempo o da pochi anni, con filmografie ben avviate o agli esordi, tracciano linee di rottura, coniugano cinema popolare e d'arte con immediatezza e precisione sono numerosi e troverebbero sicuramente un pubblico pronto ad accoglierli, se i loro film non fossero bloccati alle frontiere da un pensiero culturale troppe volte stereotipato. Eccoli, dunque, alcuni di questi pezzi rari che meriterebbero ampia visibilità.

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Shar-e Ziba (Beautiful City, 2004) è il secondo lungometraggio di Asghar Farhadi. Un capolavoro nascosto del nuovo cinema iraniano. Un melodramma che si forma lentamente, tessendo le sue trame dentro inquadrature che non cercano mai di stupire, bensì di cogliere gli stati e gli istanti di vuoto, di sospensione che abitano i personaggi e le loro solitudini. Un melodramma a più strati, lievi e inestricabili, che affronta, senza mai ridursi al semplice discorso sociale, argomenti forti come il divorzio, l'handicap, il sopravvivere ai margini della società, ponendo attenzione ai dettagli, ai gesti, alle parole e ai silenzi. Un melodramma che non dà giudizi, che sfuma nella notte e nel nero consegnando al fuori campo le sorti dei personaggi: il diciottenne Akbar, condannato a morte per avere ucciso la ragazza che amava; il suo amico Ala; la sorella di Akbar, giovane madre divorziata dal marito.

Al melodramma si rivolge anche Farinaz K. Javan con la sua opera prima Dud va ayene (Smoke & Mirror, 2005) per creare un universo febbricitante tra memoria e presente nel segno di due figure femminili, una madre e una figlia, e di immagini che sfuggono al percorso pre-vedibile, 'alla moda'. La regista estremizza la linea mélo presente in molte opere della cinematografia iraniana, insinuandola con tocchi impercettibili nella trama quasi documentaria dell'inizio (il ritorno in Iran, nel caos di Tehran, di una donna rimasta lontana dalla sua terra per vent'anni, e il suo spaesamento nel muoversi negli spazi della capitale) per farla poi esplodere nell'abitazione dell'anziana madre, vedova che nel passato fu una diva e che poi non si adattò ai nuovi modi di vivere impartiti dalla Rivoluzione islamica, rimanendo imprigionata nella sua abitazione, nella sua memoria, circondata da oggetti-segni che rievocano antichi, lontani, irraggiungibili fasti, che fuma oppio e veste parrucche, abita una casa-set-santuario circondata da specchi, come una Veronika Voss fassbinderiana, chiusa in un suo spazio fisico e mentale spostato rispetto al presente, popolato di visioni, di alterazioni, di uno strato di fumo nel quale immergersi, dal quale trarre nutrimento, estasi vicine/lontane. Fino alla morte.

Bahram Beyzai è dagli anni Settanta regista tra i più innovativi, maestro riconosciuto della cinematografia iraniana. Eppure il suo cinema, eccetto Bashu, il piccolo straniero (che fu distribuito anche in Italia), è quasi sconosciuto ai non addetti ai lavori. Sag-koshi (Killing mad dogs, 2001) è un film produttivamente maledetto, che conferma ai più alti livelli le qualità di questo autore. Qui Beyzai narra la storia di una donna che ha abbandonato il marito vivendo, negli ultimi anni, in provincia nella casa dei genitori. Quando fa ritorno nella capitale, scopre che l'uomo è in bancarotta e, a dispetto della sua precedente pessimistica considerazione sulla vita del consorte, fa di tutto per aiutarlo a superare i suoi problemi non facilmente risolvibili. Beyzai elabora una complessa struttura semantica, crea inquadrature solide come il marmo in un crescendo hitchcockiano di tensione fisica e nervosa abitato dal corpo sensuale di Mozhde Shamsai, filmata con desiderante complicità.

È invece al suo esordio dietro la macchina da presa l'attore Ali Mosaffa. Sima-ye zani dar doordast (Portrait of a lady far away, 2005) si basa su una struttura simbolica e a incastri, ricca di una moltitudine di sfumature e strati, per un viaggio nella notte, interiore e fisica, esistenzialista e metropolitana che, pur avvicinandoli, sconfina da luoghi, corpi, situazioni in cui si inscrive molto cinema iraniano (a partire dall'auto come spazio della narrazione). Mosaffa elabora una trama, nel senso di fili che si sovrappongono, intrecciano, separano, complessa e stratificata, dalla quale affiorano, come blocchi comunicanti o isolati, memorie dolorose e istanti di un presente da cogliere nella sua parzialità. Nella vita di un architetto si introduce, misteriosa, una donna, la sua voce ascoltata alla segreteria telefonica che lo informa di avere scelto un numero a caso per comunicare la sua intenzione di suicidarsi. Mosaffa costruisce le scene come un puzzle, spezza una continuità spazio-temporale, apre finestre non tanto su frammenti di realtà quanto piuttosto su situazioni che si impongono al protagonista, nel segno di un realismo trasfigurato in una dimensione astratta, simbolica, inquietante. Memorabile, nello sconfinamento metropolitano notturno, la sosta in un palazzo dove artisti inaugurano una mostra multimediale, con pluralità di lingue parlate e performances d'avanguardia, sull'identità individuale e collettiva.


Ma nel cinema iraniano recente trova anche spazio Shabhaye roshan (White nights, 2002) di Farzad Motamen ovvero un libero, magnifico adattamento de Le notti bianche di Dostoevskij ambientato a Tehran e vissuto da un uomo e una donna appartenenti alla medio-borghesia della capitale. Lui è un insegnante universitario dalla vita appartata che una notte incontra una giovane donna in attesa dell'uomo che ama. Notti di incontri e parole, sospese nell'attesa di un avvenimento che non si manifesta, dove la parola e l'immagine si compenetrano in profondi strati notturni di verità, in un lungo gioco di seduzione verbale. Opera di sorprendente maturità e lievità, dallo sguardo possente e dalla messa in scena tenace e fluida, Shabhaye roshan è stato definito dal suo autore "un film su un uomo, una donna, una città e l'amore". Elementi che appartengono a molto cinema iraniano che aspetta solo di essere accolto con maggiore attenzione e curiosità.


 

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