Qualcuno sta uccidendo i resti della Hollywood classica: addio a Rod Steiger
L'arte recitativa di Steiger ha saputo innalzarsi nei più alti cieli dello scrupolo dedizioso nell'analisi del personaggio e nella sua trasfigurazione in simbolo di una disperata sconfitta. Nel Cinema, come nella Storia.
Uno dei tanti coccodrilli che si scrivono a mala pena, questo su Rod Steiger. Per la grandezza dell’attore, senz’altro, per l’enorme rispetto dovuto a tanti anni di carriera, ma forse ancor di più per un pezzo di vita che se ne va. Rod Steiger, il Cinema. Un tutt’uno, che nel giro di quarant’anni non ha fatto altro che farci innamorare ogni volta, come fosse la prima, dell’attore, della recitazione, dello scrupolo ossessivo nel far rivivere nella finzione l’ombra dell’uomo che si nasconde dietro il sublime performer. Nacque il 14 aprile del 1925 a West Hamptpon (New Jersey), il suo vero nome era Rodney Stephen Hampton. Un’infanzia dura, dei trascorsi a volte molto difficili, ma l’ostinazione di perseguire il suo sogno di sempre: recitare. Una vocazione quest’ultima, un richiamo irresistibile, che portò Rod a frequentare il New York Theatre Wing, l’Actor’s Workshop e infine L’Actor’s Studio di Strasberg. Già l’Actor’s Studio. Lo studio appassionato del sistema Stanislavskij, la consapevolezza che ciò che vale per il teatro, può valere in parte anche per il cinema. E’ solo una questione di impegno, e nondimeno, di identificazione. Il passo per giungere al primo film, fu breve. “Teresa” del 1951, una conferma di ciò che Rod aveva mostrato di buono sul palcoscenico. Un ruolo poco importante questo, un film che oggi non ricorda più nessuno, ma un trampolino di lancio non indifferente. Dopo poco, la prima chiamata importante. Kazan allora, con Fronte del porto” in cui Steiger se la vedeva direttamente con il mostro sacro nascente Brando. Un film importante, un’opera densa di valori, rischiarata il più delle volte dalle ancore timide apparizioni di questo giovane attore, già capace però di imporre sulla scena una presenza forte, non di rado carismatica, a volte addirittura intensa. Brando c’è e si fa sentire, ma Steiger non gli è da meno. I loro duetti sono pezzi di recitazione che non invecchieranno mai.
Il 1965 è l’anno dell’”Uomo del banco dei pegni” di quel gran bel mestierante di Sidney Lumet. Per molti, il capolavoro recitativo dell’attore. Anche qui un personaggio torvo, minaccioso, inquietante. Steiger è un usuraio ebreo ad Harlem, carico di tutto l’odio accumulato dentro quando si trovava ad essere prigioniero dei nazisti in un lager. L’accensione della cattiveria, della malvagità, il disegno terribile di una volontà di morte che Rod riesce ad esprimere stavolta in modo eclatante, non risparmiandosi nessun tipo di accentuazione della propria mimica, ma ancor di più la resa folgorante del trapasso dalla malvagità iniziale, alla presa di coscienza del male fatto. Un esempio sublime questo della capacità dell’attore di dar vita a personalità complesse, a ritratti sempre in bilico tra la vita e la morte, la grazie e la dannazione, la salvezza e la perdita. Per arrivare al primo sospirato Oscar, bisogna attendere il 1969 con “La calda notte dell’ispettore Tibbs di Norman Jewison. Anche stavolta un personaggio sgradevole, capace però di rivelare nel finale un piccolo accenno di trasformazione che deve aver colpito molto i giurati dell’Accademy che non ci pensarono due volte a premiare l’attore con l’ambita statuetta.
Vinto l’Oscar, si aprì per Rod un periodo buio, quegli anni ’70 che lo videro protagonista di tante opere minori, che non riuscirono mai a rendere appieno la sua eccezionale maturità espressiva. In più, durante quegli anni, vi fu la fine del suo terzo matrimonio, una crisi depressiva forte e un delicato intervento al cuore. Possiamo ricordarlo ancora con immenso piacere nella parte di uno straordinario Ponzio Pilato nel “Gesù di Nazareth” di Zeffirelli, e in questi ultimi anni nel geniale “Mars Attack” di Tim Burton. Manca un titolo importante però alla sua filmografia, un titolo che abbiamo voluto lasciare per ultimo, perché lo riteniamo importante, significativo, per certi versi indimenticabile. Stiamo parlando del rozzo Juan Miranda di “Giù la testa” (1971) del mai troppo rimpianto Sergio Leone. L’ultima grandissima interpretazione di Steiger, l’esplosione incontrollata di tutti quegli umori con cui nel corso degli anni aveva rivestito i propri personaggi. Un sudicio bandito sullo sfondo del Messico rivoluzionario, l’amicizia con un ribelle irlandese che piano piano trasforma Miranda in un eroe della rivoluzione. Prima inconsapevole, poi assolutamente motivato. L’ennesimo uomo schiacciato dalla storia, la capitolazione definitiva di quel sentimento di nostalgia malinconica (travestita da esuberante gigionismo) che Steiger ha cullato in tutte le opere a cui ha prestato il proprio corpo, la propria mimica, la propria presenza. Senza entrare nel merito dell’opera, ci basti ricordare l’ultima sequenza in cui Miranda assiste al suicidio dell’amico, e resta impietrito di fronte al suo corpo che esplode. Un primi piano sul suo volto, prima perplesso, poi intristito, infine disperato. Pura poesia del gesto attorico, capacità di esprimere almeno tre sentimenti contraddittori in una solo sguardo. Chiudendo, abbandoniamo per un attimo il plurale maiestatis imposto dall’esigenza. Qualche anno fa il sottoscritto si trovava al Palazzo delle Esposizioni di Roma in occasione dell’anniversario delle morte di Sergio Leone. Una mostra, con retrospettiva completa delle sue opere ed esposizione degli abiti di scena dei suoi film. Il giorno di “Giù la testa”, Steiger era lì. Mi avvicinai con il fare impacciato di chi sa di trovarsi di fronte ad uno dei più grandi attori di cinema del secolo. Gli detti la mano, esprimendogli la mia ammirazione. E lui, imbarazzato, nascose a fatica un piccolo rossore. Già proprio lui, il colosso massiccio, imponente. Più grande della vita.
Ed oggi, della morte.