Richard Nixon, "slumdog millionaire"

Richard Nixon
E' quasi impossibile tracciare la vita cinematografica di Richard Nixon: perchè la sua stessa carriera politica è la favola hollywoodiana dell'outsider che arriva al successo contro ogni difficoltà. La sua è stata la parabola in negativo del mito del successo americano, una specie di versione malsana di Barack Obama, il lato oscuro – e non per questo privo di fascino – del sogno jeffersoniano.

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Capite che responsabilità ho? Sono l'unico uomo tra Richard Nixon e la Casa Bianca!
(John Fitzgerald Kennedy)

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Se la vita di Richard Milhous Nixon fosse stata scritta ad Hollywood, il suo film si sarebbe concluso il 5 novembre del 1972, la notte del suo secondo trionfo elettorale, quando il popolo americano gli consegnò la conferma alla Casa Bianca con venticinque punti di margine, uno dei distacchi più alti di sempre, su George McGovern, uno dei tanti viziati ed odiati radical dell'Est che avevano cercato di mettergli i bastoni tra le ruote. Sarebbe stato un commovente happy ending, per il bravo ragazzo povero della California, per lo slumdog millionaire di Yorba Linda, il nuovo eroe della maggioranza silenziosa che aveva visto due fratelli morire di tubercolosi mentre i Kennedy correvano nei loro completi bianchi a Martha's Vineyard. L'uomo più potente del mondo con la sua amata Pat, mentre insieme ascoltano The Star Spangled Banner con la mano sul cuore: tutti hanno una possibilità, in America. I titoli di coda di un festoso musical.

Se è difficile parlare della vita cinematografica di Richard Nixon, è perchè la vita stessa del 37esimo Presidente degli Stati Uniti emana un fascino difficilmente ignorabile. Sembra strano, per il meno fotogenico degli inquilini della Casa Bianca, per uno che non riusciva ad andare in televisione senza sembrare il cattivo di un film di gangster. Un volto tanto poco affidabile che il suo stesso ritratto venne usato come manifesto dai democratici: “Comprereste un'auto usata da quest'uomo?”. Nel 1960, gli americani preferirono comprarla dal John Kennedy, piuttosto che da Dick l'Imbroglione. Eppure, sembra che chiunque si sia avvicinato al racconto della sua vita – per primo Oliver Stone, che nel 1996 gli dedicò un film di denuncia scivolato inconsapevolmente nell'agiografia – abbia ceduto alla tentazione di notare come la sua vita fosse più hollywoodiana – e quindi più americana, e quindi difficilmente resistibile – delle sue stesse malefatte. All'apparenza, la sua è la storia dell'outsider che con infinita forza d'animo e una serie di provvidenziali aiuti della fortuna arriva al successo: Nixon perse le elezioni del 1960 per un pugno di voti, contro un uomo che rappresentava tutto quello che non sarebbe mai potuto essere: John Fitzgerald Kennedy era bello, parlava bene, aveva successo con le donne, era amato da tutti e soprattutto era ricco. Era stato nel Pacifico proprio come lui, ma i soldi del padre gli avevano permesso di restarci giusto il tempo per diventare un eroe di guerra pieno di medaglie al valore. Era ricco suo fratello Robert, che lo avrebbe battuto senza pietà alle presidenziali del 1968, se non fosse rimasto ucciso in un attentato. Era ricco persino Nelson J. Rockefeller, che avrebbe vinto le primarie repubblicane, se Nixon non avesse avuto l'idea di scegliersi Spiro Agnew come sostenitore (e suo vice), e con lui le sette cristiane e il Sud razzista, provocando una scissione nel GOP. Erano ricchi e cresciuti nelle migliori università anche Bob Woodward e Carl Bernstein, i due spocchiosi giornalisti del Washington Post che lo inchiodarono alle sue colpe e lo costrinsero a lasciare lo Studio Ovale.

 Il film di Richard Nixon infatti non è finito nell'autunno del 1972, ma nell'estate di due anni dopo, quando dovette dimettersi in diretta nazionale, per le conseguenze dello scandalo Watergate. Se Nixon ha lasciato qualcosa al cinema, non è stata tanto la sua vita, già abbastanza “bigger than life”, già abbastanza piena di contraddizioni da essere allo stesso tempo una tragedia, una commedia, una farsa e un pamphlet sull'arroganza del potere. Nel cinema, Nixon è semmai uno stato d'animo, un ineluttabile senso di disfacimento (il water che spuma sangue ne La conversazione di Coppola), di paranoia diffusa, di completo declino del sogno jeffersoniano (il suo claustrofobico e disperato fallimento in Quel pomeriggio di un giorno da cani di Lumet), della sconfitta della giustizia davanti alla forza dell'autorità (come Warren Beatty in Perchè un assassinio di Pakula), una resa incondizionata alla disillusione, al crollo evidente della consapevolezza che essere americani significava essere nel giusto (la composta mestizia di God Bless America nel finale de Il cacciatore di Cimino). Nixon ha rappresentato una sorta di versione in negativo di Barack Obama, il doppio goffo e maldestro di una favola a stelle e strisce sul successo, sul destino manifesto che si presenta incurante degli ostacoli e delle difficoltà di partenza. Il suo corrispettivo diretto non è né l'Anthony Hopkins di Oliver Stone e né lo straordinario Frank Langella di Ron Howard: è forse il Don Vito Corleone di Marlon Brando, il mito dell'individualismo che preserva il suo fascino anche mostrando il suo lato più malsano, quello di un potere che cerca di conservare se stesso ad ogni costo.

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    Un commento

    • articolo molto interessante su una figura della storia contemporanea molto importante… inconsueto per un sito di cinema. complimenti!