“Risalire alle sorgenti creative”. Incontro con Marco Filiberti

Ospite di Sentieri selvaggi, il regista di Parsifal ha toccato molti temi, dal lavoro con i collaboratori alle considerazioni sull’arte, fino al rifiuto di adeguarsi al sistema industriale italiano

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In occasione dell’incontro con Sentieri Selvaggi, il regista e autore Marco Filiberti ha dato vita a una discussione ampia, tematicamente onnivora, che ha toccato moltissimi temi relativi tanto al suo specifico processo creativo, quanto alla sua posizione anarchica nell’attuale panorama cinematografico italiano. “Sin da subito mi sono posto a priori con una valenza polemica, che non corrispondeva minimamente al processo artistico italiano” risponde così il cineasta, interrogato sull’aspetto eversivo della sua figura artistica. “Perché io posso lavorare solamente in una modalità artigianale, nonostante i miei film non siano certamente minimalisti, né tanto meno poveri di mezzi produttivi. Quello a cui tendo è una contraddizione: seguo capillarmente tutti gli aspetti creativi delle mie opere, dalla stesura delle sceneggiature alle collaborazioni con gli attori, artisti e produttori, ma allo stesso tempo rifuggo dal sistema, non mi conformo ad esso. È anche questo il motivo per cui ho realizzato, per adesso, solo 4 film su ben 10 già scritti e definiti”.

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Riflettendo di seguito sul percorso artistico che lo ha portato a definire i parametri della sua eclettica carriera, Marco Filiberti ricorda le fibrillazioni provate all’esordio giovanile al Festival di Berlino. “Quando ho inaugurato 19 anni fa la mia parabola filmica (con Poco più di un anno fa – Diario di un pornodivo del 2003) avevo realizzato solamente un cortometraggio. Perciò mi sono ritrovato improvvisamente nella sezione Panorama a Berlino, con l’incoscienza di chi, ancora giovane, è portato a considerare tutto facile”. Un’incoscienza che come sostiene il regista, è stata ulteriormente enfatizzata dalla difformità ricettiva con cui è stato accolto il suo film di debutto. “In Germania il film è stato universalmente encomiato. In Italia, invece, lo hanno tanto esaltato quanto odiato. Non ero minimamente preparato ad una corrida di questo genere, a tal punto che il film è stato anche citato a Porta a Porta! C’è stato sicuramente un momento di ubriacatura, ma poi ho capito che sarei andato avanti, senza guardare le ingerenze esterne”. Lezione, questa, che al regista è servita per prendere definitivamente coscienza della sua vocazione artistica, dello stato anarchico a cui tende la sua figura se raffrontata con il sistema industriale nazionale. “Per me adeguarsi al sistema sarebbe stato impossibile” continua così il cineasta. “In Italia pagare una posizione di libertà assoluta è certamente difficile, ma perseguo nel manifestarla nel cinema, come a teatro o nell’attività maieutica, di insegnante. Seguire questo sentiero senza essere connesso a una corporazione non è semplice, ed è necessario prendere sempre una ferma posizione: o con loro, o contro di loro”.

È questo, per Marco Filiberti, uno dei segreti per rimanere fedeli a sé stessi, anche e soprattutto in un contesto creativo/espressivo profondamente personale. “Tutto quello che sono non è frutto di una pianificazione programmatica, dal momento che ho cercato di ascoltare continuamente le istanze più profonde del mio animo. Perché le mie declinazioni interiori non devono semplicemente essere programmate, ma udite e considerate. Per questo motivo, ad esempio, anche se Parsifal è stato escluso dalle candidature ai David, non vivo un rapporto antagonistico di vittoria e sconfitta. Il duale va necessariamente superato per due motivazioni: storicamente non siamo più nel periodo della polemica, perché essa ormai ha perduto la valenza di gesto creativo; e anche perché io e te siamo due declinazioni della stessa cosa. Fino a che non si capisce questo, ci saranno le guerre”. Per il cineasta italiano, allora, il superamento dei dualismi diventa l’incipit di ogni scelta creativa, deliberata all’insegna della connessione. “Tutto il lavoro di preparazione è un lavoro di connessione, di risalita verso le sorgenti creative” sostiene Filiberti. “Io devo cercare di liberare il campo da un eccesso di identità, in modo da poter canalizzare gli archè. Bisogna sempre sgomberare, ripulire. Proprio come Mosè davanti al roveto ardente, per avvicinarsi all’archè è necessario togliersi i sandali ed entrare a piedi nudi. È per questo motivo che in Parsifal non ho cercato di controllare la potenza dell’Eros, ma di usarla per suggestionare l’Ego”.

Riprese e montaggio di Lorenzo Levach e Emanuele Rossetti

Nel corso della conversazione, Marco Filiberti si sofferma anche sui riferimenti culturali della sua espressione artistica, e su come essi abbiano agito da catalizzatori poetici. “Le colonne primarie d’ispirazione non sono state inizialmente rappresentate da registi, ma da scrittori e compositori” afferma in merito il cineasta. “Proust e Wagner sono per me imprescindibili. Mentre tra i filmmaker, il primo amore lo devo necessariamente ricondurre a Luchino Visconti, che tra l’altro abitava a 30 metri di distanza da me. Un altro riferimento è stato Douglas Sirk, di cui da piccolo ho visto Lo specchio della vita. Per me è stato come vedere un horror. Mi ha spaventato per il modo in cui metteva in scena gli aspetti più degenerativi dell’umanità con un rigore formale particolare, che in apparenza non sembrava mostrare niente”. Riferimenti culturali tra i più alti, da cui il cineasta ha voluto progressivamente allontanarsi, per dirigere il proprio sguardo verso un espressività sempre più personale e soggettiva. “Nel momento in cui ho voluto fare il mio cinema, ho perso la teoria. Il mio obiettivo era quello di seguire una via unica, che portasse le tracce di una cifra stilistica profondamente personale”. Considerazione che si lega intrinsecamente alla configurazione ideale del suo processo creativo, frutto secondo il regista di una sovrapposizione di collaborazione e consapevolezza autoriale. In questo senso “il lavoro collaborativo è necessario, ma il regista-autore deve sempre portare ai collaboratori una giustificazione rigorosissima delle proprie suggestioni. Ogni elemento deve avere delle radici profonde, che la collaborazione tra artisti porta alla dimensione definitiva. E bisogna trovarsi in sintonia su tutti gli aspetti. Solo così si potranno superare le possibili incomprensioni ed intendersi ad un livello diverso”.

Tutto quel che vediamo sullo schermo ha perciò origine dalle istanze creative interiori all’autore, di cui egli ha disseminato le tracce lungo il corso della sua filmografia. “Tutta la mia opera prevede un elemento eversivo, che dall’esterno si connette ad un livello inconsapevole con tutti gli astanti, portandoli ad una presa di coscienza differente” dichiara Marco Filiberti in merito alle strutture diegetiche delle sue narrazioni. “Perché l’arte deve sempre (ri)connettersi alle necessità sapienziali, che sono assolutamente fondamentali: o gli individui si svegliano, o la società soccombe. E contrariamente a quello che veicolano le varie politiche governative, essa non è mai democratica. L’arte non è per tutti, ma per chi ne ha bisogno. Ti accoglie nella sua soglia per riplasmarti. Se non lo fa, è solo intrattenimento”.

 

In coda all’incontro, Filiberti ha avuto anche l’occasione di riflettere su una delle sue opere più acclamate, Il compleanno, rievocandone il singolare iter produttivo. “Inizialmente mandai la sceneggiatura a Rai Cinema, che me la rispedì con una valutazione effettuata con i prestampati. A quel punto la inviai ad un importante Concorso europeo, con una giuria piena di nomi di rilievo, tra cui quello di David Lynch, che me la valutò con il punteggio più alto mai registrato a quella stessa competizione”. Risultato che ha portato il cineasta a siglare una co-produzione con la Francia, nonostante l’assenza di una distribuzione sicura in Italia. “Per ottenere il visto censura nel nostro paese” prosegue Filiberti “organizzai allora una proiezione per la CEI (Conferenza Episcopale Italiana). E da lì, il film ha potuto fare il suo percorso”.

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