Parsifal, di Marco Filiberti

Alla quarta regia Filiberti trova il suo Graal artistico con un’opera cinematografica totale e mesmerizzante. Un viaggio orfico senza paura tra letteratura, pittura, religione, teatro e musica

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Forse il Candido di Voltaire è soltanto un puro di cuore che ha come precipuo stigma quello di avere come precettore Pangloss. Invece con questo suo Parsifal Marco Filiberti ha saputo avvicinarsi all’essenza dell’eponimo eroe del ciclo arturiano – una delle personificazioni leggendarie più pregne dell’innocenza – liberandosi dal giogo normativo della ricezione commerciale/autoriale per creare un’opera artistica totale che in Italia si fatica anche solo ad immaginare, figurarsi a realizzare in questi termini. Perché se nella ricerca del Graal, sacro o laico che sia, quello che importa è proprio conservare il cuore lontano dalle tentazioni del mondo che vorrebbe corromperti e, peggio ancora, uniformarti a sé, alla sua quarta regia Filiberti sembra aver spezzato definitivamente le catene che lo tenevano avvinto alla produzione italica superando perfino la dimensione aurorale dei suoi precedenti film. In uscita al cinema il 23 settembre 2021 grazie alla distribuzione di 30 HOLDING, Parsival raccoglie con ambizione l’enorme peso della tradizione mitica rilanciandosi allo stesso tempo come erede della sua riscrittura più famosa, ovviamente quella wagneriana. Una Gesamtkunstwerk toscana che si pone sprezzantemente in aperto dialogo con le massime espressioni del canone occidentale degli ultimi secoli: dai monologhi scespiriani del protagonista alle scenografie fassbinderiane, dai colori caravaggeschi di alcune scene ai riferimenti joyciani, dagli aneliti religiosi di rinascita al misticismo di una temporalità a-lineare e impossibile da decrittare razionalmente. Non ha paura dell’eccesso culturale, e del ridicolo intellettualoide ad esso connesso, Parsifal: quando cita (Carmelo Bene, Čajkovskij ma l’elenco è lunghissimo) lo fa apertamente e quando evoca (Derek Jarman, i pre-raffaelliti e anche qui si potrebbe continuare a stilare) apre con ancor più forza all’interpretazione. Filiberti cerca l’effetto sinestetico trovandolo a quasi ogni inquadratura, spinto da un furore che riesce a fargli ottenere mirabilie che vanno anche oltre le intenzioni di partenza. I limiti di una scrittura a volte pleonastica a volte gonfia – arcaismi, poeticismi, invocazioni, vaghezze iniziatiche – vengono difatti compensati da una cura formale da cui è quasi impossibile non farsi sedurre. L’ouverture ambientata nel porto, ad esempio, è probabilmente una delle più belle crasi set-palco degli ultimi anni esperita dal nostro cinema e dimostra che la cartapesta non è necessariamente il destino delle riduzione teatrali su pellicola (o che non bisogna essere Fellini per provare a ragionarci sopra).

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Il merito principale di Filiberti è di abbeverarsi a fonti che seppur classiche, quasi scolastiche potremmo dire, raramente trovano spazio in un immaginario cinematografico che sia nei suoi esiti industriali che in quelli autoriali fatica negli ultimi anni ad uscire da sentieri facilmente tracciabili. Parsifal è un umido Cristo, un pietoso Zoroastro, un Siddharta gender fluid e poco importa se la suggestione spesso risulti solo accennata o nasca esplicitamente da un’erra(bonda)ta connessione dello spettatore. In fondo, in un film che rifiuta questa categorizzazione per definirsi sin dai titoli di testa come “opera cinematografica” non è olisticamente la somma delle singole parti a definirlo quanto l’interconnessione metatestuale a cui rimandano le sue sequenze. Ed è davvero straordinario come in tale operazione il cinema non si abbassi mai ad una posizione ancillare ma riesca, come se fossimo agli inizi della rivoluzione dell’immagine in movimento, a convogliare dentro i suoi confini le istanze delle altre arti. Il formalismo di un progetto pensato e coltivato visceralmente, fieramente autarchico nella sua ricerca poetica (il ricorso alla sedicente “drammaturgia del rovinismo”), lo connota senza paura di contraddizione di un particolarismo tecnico e di un universalismo tematico mai dissonanti. Parsifal compie la sua rivoluzione esistenziale camminando tra riconoscibili colline senesi e quando torna al porto della Terra Desolata, poco prima di congiungersi con la Terra per entrare nel tempo dell’Adesso, si ha l’impressione che T.S. Eliot abbia scritto il suo capolavoro da una campagna in Val di Chiana. Per quanto riguarda la parte tecnica Filiberti, insieme al direttore della fotografia Mauro Toscano, riesce con grande finezza ad avvicinare il digitale della macchina da presa al materico della pittura rinunciando a sfumature e gradazioni tonali per concentrarsi, alla maniera di Raffaello, sulla pregnanza di pochi colori primari e secondari (il giallo della Golden Age del jazz nella lunga scena ambientata nel bordello, il marrone della pietra del monastero nel dialogo Cristologico tra Parsifal e il suo sé). Anche la performance dei pochi attori presenti in scena denota il lungo lavoro preparatorio fatto con essi e la loro totale adesione verso la koinè visiva del regista. In un’opera cinematografica che si nutre di suggestioni sapienziali antichissime si può ricavare un’aforisma dal sapore new-age: per trovare il Graal dell’ispirazione artistica basta semplicemente avere l’ardire di un ego ipertofico. Come Parsifal, come Filiberti.

 

Regia: Marco Filiberti
Interpreti: Matteo Munari, Diletta Masetti, Marco Filiberti, Giovanni De Giorgi, Luca Tanganelli, Elena Crucianelli, Zoe Solferino
Distribuzione: 30 Holding
Durata: 135′
Origine: Italia, 2021

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.8

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
3.1 (21 voti)
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