Robbie Williams, di Joe Pearlman

La docuserie Netflix su Robbie Williams vanifica il potenziale esplosivo del repertorio inedito concentrandosi soltanto sul trauma dell’artista senza raccontare nulla della magia della performance

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Quando Dorothy alza il telo dietro al quale si cela il Grande e potente Oz, quello che le appare davanti è un piccolo uomo, un ciarlatano, che ha saputo però dar vita a una grande illusione propagando la sua leggenda dalla città di Smeraldo all’intero regno.
Il finale del Il Mago di Oz è forse il primo backstage della storia del cinema e di certo una potente riflessione sul mondo dello spettacolo, sulla fascinazione delle masse e la crudeltà sottesa a questa magia. Il film del 1939 lo mette in scena e lo vive al tempo stesso sulla pelle della sua protagonista, con una Judy Garland fagocitata dalle logiche spietate dello show biz, e ci vorranno decenni prima che il Mago abbia la sua “back story”, quella in cui Sam Raimi ci spiegherà come un miserabile saltimbanco si sia ritrovato, suo malgrado, alla guida di Oz.

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In Robbie Williams, documentario Netflix diretto da Joe Pearlman, l’ex ragazzo di Stoke on Trent è di fatto il Mago, il performer in grado di incantare le folle e il piccolo ciarlatano (affetto da una acuta sindrome dell’impostore, si direbbe oggi).

Ripreso nella sua villa, spesso sdraiato nella propria stanza in canottiera e boxer – “Sono un eremita. Se non sono sul palco sono a letto” – Robbie ripercorre alla moviola la sua carriera, visionando filmati su filmati dal suo Macbook con il logo della mela in bella vista.

Protagonista carismatico, ore di repertorio inedito, Asif Kapadia come produttore esecutivo: Robbie Williams sulla carta avrebbe tutto il potenziale per un documentario esplosivo e invece scoppia come una bolla di sapone già dopo il primo dei quattro episodi. Non c’è nulla qui dei ritratti complessi di Amy Winehouse e Diego Maradona che Kapadia, da autore, aveva saputo raccontare tra luci e ombre mantenendo intatta l’allure delle star.

Ma al tempo stesso, quella di Robbie, il figliol prodigo dei Take That, la pecora nera che si riscatta, e poi cade, si rialza per poi soccombere nuovamente, in un loop andato avanti per decenni, è una radiografia contemporanea dello star system e dell’auto-narrazione che ci riguarda tutti dall’avvento dei social in poi.

Il protagonista lo dichiara programmaticamente come reazione al found footage: “Provo vergogna, dolore, l’intera gamma delle emozioni umane”. Una gamma totalmente al negativo, che rilegge nell’ottica pauperistica della cancel culture l’euforia degli anni Novanta, del periodo in cui la Cool Britannia era il centro di una rinascita culturale, artistica e sportiva ammirata in tutto il mondo.

Dalla gelosia per il frontman dei TT Gary Barlow a quella per l’autore dei suoi maggiori successi, Guy – Mr. Angels – Chambers, Robbie Williams alza da subito la tenda del mago e insiste nel mostrarci il piccolo uomo dietro la divinità pop, crogiolandosi in quattro episodi di pura autocommiserazione che si rivolgono a un’audience sempre più affamata di trauma e mortifica il peso reale della carriera di Williams, accontentandosi di farne una vittima del sistema quando la sua straordinaria videografia aveva già raccontato in tempo reale e in maniera ben più vivida la sua lotta con la fama, dai risvegli in hangover di Come Undone alla popstar scarnificata, che getta ai fans in delirio i brandelli del proprio corpo in Rock DJ. L’assenza di un punto di vista completo, su ciò che di magico resisteva in quel dolore privato, depotenzia una carriera e una vita. Lo stesso Robbie lo profetizzava nel 2009: Reality killed the video star.

 

Titolo originale: id.
Regia: Joe Pearlman
Distribuzione: Netflix
Durata: 200′
Origine: UK, 2023

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2
Sending
Il voto dei lettori
3.5 (2 voti)
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