ROTTERDAM 40 – “A Year Without a Summer” di Tan Chui Mui (Return of the Tiger)
Il nuovo film di Tan Chui Mui è un po’ la storia di un buco nero. Questo buco nero si chiama Azam, un cantante che ritorna nel suo villaggio natale in visita a una coppia di amici. Come nel suo precedente Love Conquers All (con cui vinse Rotterdam qualche anno fa), Tan costruisce con clamorosa economia di mezzi un’atmosfera indeterminata di fascino irresistibile
Il cinema malese che negli ultimi anni passa nei principali festival internazionali è riconoscibile quasi alla prima occhiata: minimalismo “spinto”, parsimonia di dialoghi, uso “virtuoso” e disciplinato del digitale per raccontare storie anche ambiziose o arditamente letterarie con pochi mezzi, assetto visivo semplice ma limpido. È inoltre facile notare come, in molti casi, i nomi che circolano sempre gli stessi: nei titoli di coda troviamo, pressoché invariabilmente, l’apporto collaborativo di volta in volta alla regia, alla sceneggiatura, alla produzione e quant’altro di Liew Sang Tat, Ho Yuhang, Woo Ming Jin, Amir Muhammad, James Lee e alcuni altri.
Tra questi, Tan Chui Mui, vincitrice a Rotterdam quattro anni fa con Love Conquers All. Il suo nuovo, splendido Year Without a Summer è un po’ la storia di un buco nero. Questo buco nero si chiama Azam, un cantante che ritorna nel suo villaggio natale in visita a una coppia di amici. Tutti e tre vanno in gita in barca, a pescare di notte su un’isola vicina. Poi, per gioco, Azam e la moglie fanno a gara a chi sta più in apnea. Ma Azam non torna più in superficie. Letteralmente, scompare. Iniziano le ricerche, ma non ci interessano: parte un lungo flashback sulla sua infanzia. La fuga dal villaggio, la morte del nonno, il primo impiego, le prime amicizie…
Da sempre in quieta fuga da tutto e da tutti, Azam è chiuso dietro una tranquilla e distaccata indifferenza. È una non-persona, un “quid” non meglio identificabile. È letteralmente il negativo di un personaggio, il suo misterioso e opaco “lato-b”. Volendo ricorrere a una metafora più volte impiegata dal film, è come una sirena al contrario, testa di pesce e gambe di donna. La parte che di lui viene mostrata, è quella che non fa vedere niente, refrattaria a qualsiasi definizione.
Anche Year Without a Summer è un film “invertito” – e certo non solo perché la seconda metà è un unico lungo flashback. È come se, volendo dipingere Azam, Tan si accorgesse che tutto sommato, vista l’impenetrabilità del personaggio, il retro della tela gli assomiglia più del ritratto dall’altro lato. E quindi è come se decidesse di girare il quadro dall’altra parte e di esporlo così.
Tutta la prima parte è letteralmente un brancolare nel buio. Nulla più che la luce tenue della luna illumina i tre personaggi in barca. Chiacchiere e gesti scivolano via; la macchina da presa sembra catturarli un attimo prima che diventino materia narrativa, nella loro sospensione per così dire ancora vergine. E in effetti, di quelle chiacchiere, solo le due-tre battute rigorosamente più improbabili si dimostreranno cruciali nell’altra metà del film. Quindi una costruzione c’è, ma è talmente sottile che l’attenzione cade piuttosto nella massa di vuoto che preme tutt’intorno. Di questa fascinosissima alchimia atmosferica, ottenuta con la più clamorosa economia di mezzi produttivi e stilistici, è epitome particolarmente adeguata la scena in cui Minah (la moglie dell’amico) si immerge in apnea per scommessa: per tre minuti di fila stiamo lì, a guardare la barca in cui Azam e l’amico aspettano, ma l’essenziale si svolge altrove. E a questo altrove gli scivoliamo solo accanto.
Del resto, era già chiaro dalle primissime immagini: una sagoma nera esce dal mare e viene verso di noi, e a poco a poco riusciamo a distinguere quei tratti che poco dopo identificheremo come quelli di Azam. Ma è una apparizione che appare e basta, non “dice” nient’altro che la propria indeterminata comparsa.