‘Se’-Back, di Kei Shichiri

Shichiri assiste a una performance di Gozo Yoshimasu, uno dei più importanti poeti giapponesi. E la traduce in immagini, a modo suo. Tra le visioni più esaltanti e ipnotiche del Doclisboa 2022

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Gozo Yoshimasu è uno dei più importanti poeti giapponesi viventi. Noto, oltre che per i suoi testi, per le performance che mescolano vari linguaggi e forme di espressione, disegno, calligrafia, film, canti, musica. Veri e propri happening, che hanno una spiccata propensione rituale. È  a una di questa performance che assiste Kei Shichiri, dal titolo Se (tradotto in inglese con “back”). Un evento realizzato nel novembre del 2019, poco prima dell’esplosione della pandemia. Qualcosa di assolutamente inclassificabile: in una casa in riva al mare, Yoshimasu, bendato e mascherato, alterna la lettura di un suo componimento con un disegno casuale su una lastra di vetro. Colori delebili, linee incerte, curve, minuscoli segni grafici, movimenti a scatti, resi come in una specie di trance. Il tutto accompagnato dalla dura musica dei Kukangendai, trio avant-rock giapponese che crea una partitura ritmica sempre più vibrante, violenta e incisiva.

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C’è un che di ipnotico nei gesti e nelle parole di Yoshimasu, nel suo modo di declamare i versi fino all’urlo che esce dal profondo, di abbandonarsi alle note e all’imprevedibilità dell’improvvisazione. Ma anche un senso di precarietà, la consapevolezza di quanto tutto sia effimero, destinato a sfumare. A cominciare dalla parola che risuona per poi cadere inesorabilmente nel silenzio. Fino ad arrivare a quei segni tracciati sulla lastra di vetro, pronti a esser cancellati per lasciare spazio ad altro, a nuove ispirazioni e ghirigori. “Quest’opera rimarrà fino a gennaio”, annuncia il poeta. Ed è davvero l’accettazione di un’impermanenza assoluta. Epperò c’è qualcos’altro che resta identico a sé stesso. È il supporto della lastra di vetro. Su cui Yoshimasu opera di cancellature e riscritture continue. “Qualcuno mi ha chiesto perché non uso ogni volta una lastra nuova”, racconta a un certo punto. La risposta è tanto semplice, quanto disarmante. Perché neanche la montagna cambia… perché esistono delle cose che stanno lì, nonostante il tempo. Per di più, per quanto i prodotti usati per lavare il vetro siano potenti, su quella lastra permangono delle opacità, delle macchie, tracce labili di un passato che comunque persiste.

E Kei Shichiri è bravo a tradurre tutto questo discorso, scegliendo di usare proprio la lastra come filtro attraverso cui guardare ogni cosa. Trasforma la concretezza dei gesti e delle espressioni in un’astrazione di movimenti e segni. A cominciare dal dettaglio del rito sacro di pulitura, con il detergente che disegna spirali di bolle, cerchi infiniti di schiuma che sembrano richiamare le onde del mare che si agitano fuori. E arriva a cogliere perfettamente questa contraddizione tra la trasparenza e la velatura, tra la chiarezza e il mistero di ciò che non può essere visto. Il volto di Yoshimasu per la maggior parte del tempo è indistinguibile, mentre i musicisti appaiono di riflesso e di sfuggita, quasi come se le magiche proprietà del vetro li strappassero per un istante dal buio a cui sono destinati. Impermanenza e persistenza. È il tormento dell’immagine. Che è testimonianza, che diventa, in qualche modo, l’unico mezzo di trasmissione dell’opera. Ma che, pure, può giocare solo con le ombre.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4
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