Sentieri Selvaggi intervista Elena Lietti

Elena Lietti ha portato nella scorsa stagione il testo di Nick Payne Costellazioni in giro per i teatri d’italia, Ma l’attrice ha attraversato anche il cinema in film come Oggi sposi o Tre Piani

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L’attrice lombarda Elena Lietti, classe ’77, è un’artista “a cavallo” tra cinema e teatro. Lietti fa il suo esordio sul palcoscenico del Teatro Franco Parenti di Milano nel 2011 al fianco di Filippo Timi con Amleto2. Tra le numerose produzioni che la legano al Parenti si ricordano Don Giovanni. Vivere è un abuso, mai un diritto (2013-2015), La Sirenetta (2014), Un cuore di vetro in inverno (2018) testo e regia di Filippo Timi, ma anche Ondine (2013) e Gli innamorati (2014) sotto la direzione di Andrée Ruth Shammah.

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L’amore per il cinema la porta nel 2009 ad esordire per il grande schermo con Oggi sposi, di Luca Lucini. Durante la sua carriera, Lietti ha collaborato con importanti registi del panorama cinematografico italiano quali Nanni Moretti, Paolo Virzì e Paolo Genovese.

Abbiamo parlato con Elena Lietti del rapporto che ha sviluppato con questi due modi di rappresentazione, sia come attrice sia come spettatrice.

L’occasione per intervistarla è l’ultima replica dell’anno di Costellazioni, spettacolo del 2021 tratto dalla drammaturgia dell’autore britannico Nick Payne, portata in scena dal regista milanese Raphael Tobia Vogel. Un avvincente susseguirsi di situazioni che ricostruisce geometricamente, fisicamente ed emozionalmente tutte le possibili e infinite fasi di una relazione: conoscenza, seduzione, matrimonio, tradimento, malattia. Il successo riscosso nei due anni di programmazione al Teatro Franco Parenti ha permesso alla compagnia guidata da Vogel, con Elena Lietti e Pietro Micci, di portare Costellazioni anche a Firenze e Roma, arrivando a più di 50 repliche nel corso dell’anno.

Costellazioni è arrivato anche a Roma al teatro Basilica e a Firenze al teatro Puccini. Qual è stata l’accoglienza del pubblico toscano e romano rispetto a quello milanese?

Temevamo l’uscita da Milano. Costellazioni è uno spettacolo che gioca su un’ironia un po’ naif e non sapevamo cosa aspettarci da parte di un pubblico come quello fiorentino o come quello romano con uno spiccato senso dell’ironia e del sarcasmo.

Non giocavamo in casa e non eravamo sicuri che il pubblico avrebbe empatizzato o accolto quello che noi cerchiamo di creare nello spettacolo, passando attraverso un’atmosfera legata alla pura e semplice commedia per poi arrivare al twist narrativo, legato ad un emisfero che introduce invece temi più drammatici.

Per noi, infatti, avere il pubblico dalla nostra parte nella commedia è sempre stato un regalo che cambia completamente la sorte dello spettacolo perché se aderisce alla parte comica, poi è predisposto ad accogliere il dramma. In questo modo, l’esperienza emotiva arriva in modo molto forte. E devo dire che sia a Firenze che a Roma l’esperienza è stata meravigliosa. Il pubblico è stato caldissimo, “non ci ha chiesto il permesso” per ridere ed è stato da subito partecipe, forse anche più che a Milano.

Vedendo più volte lo spettacolo si rimane colpiti dalle diverse angolazioni in cui si sviluppa il vostro rapporto. Ogni sera ci si focalizza su certi frammenti piuttosto che su altri. Questo è un importante tema rivelatore del rapporto diretto tra palcoscenico e realtà che il cinema non riesce ad esprimere: il qui e ora e l’irrepetibilità di un’azione, di una parola. Siete riusciti ad accorgevi di sera in sera di questa magia?

Noi notiamo le diverse reazioni del pubblico ma devo dire che questa dinamica c’è a prescindere da Costellazioni. Quando fai il teatro, ogni pubblico, ogni città è un’esperienza diversa. Durante Costellazioni, riusciamo a sentire che il pubblico è con noi quando sentiamo un’atmosfera molto concentrata o quando sentiamo il gelo in sala perché sta iniziando la parte più drammatica dello spettacolo. Allo stesso tempo non possiamo lasciarci risucchiare dalla risposta del pubblico. Anche perché Costellazioni è un testo quadratissimo, che non prevede alcun tipo di improvvisazione, che noi dobbiamo tenere a bada in modo molto preciso. Quindi noi ci accorgiamo di come cambia l’atmosfera in sala ma non possiamo permetterci di cambiare in funzione dell’atmosfera in platea. Non è uno spettacolo in cui possiamo sfondare la quarta parete, non è uno spettacolo in cui possiamo ammiccare al pubblico, dobbiamo tenere il timone sempre dritto.

Lo spettacolo in sé è sicuramente un accadimento teatrale, direi clamorosamente teatrale. Raccontiamo come situazioni diverse possano determinare o meno diversi andamenti della storia; quindi, sicuramente raccontiamo il teatro oltre a raccontare la vita. Allo stesso tempo, però, nel farlo dobbiamo sempre rimanere attaccati al testo e non lasciarci trascinare dalle differenze di ogni sera.

Andando nello specifico dello spettacolo: si parte da teorie scientifiche molto elaborate della meccanica quantistica nella sua dimensione più innovativa. Ma questa dimensione scientifica ha il suo controcampo in una storia umana fatta di sentimenti, emozioni. Come si declina questa doppia lettura, teorica e concreta, fatta di ipotesi calate nella realtà, nel processo di lavoro per la creazione dello spettacolo?

Il testo originale non descrive situazioni: ci sono dei dialoghi che lasciano intuire delle circostanze precedenti che determinano quelle azioni e quei dialoghi. Quindi con il regista dello spettacolo, Rafael Tobia Vogel, il lavoro è stato quello di ricreare con la massima precisione le varie situazioni che generavano le azioni descritte da Nick Payne, ossia un incontro, un tradimento, una promessa di matrimonio. Così, per ogni incontro, per ogni tradimento, per ogni proposta di matrimonio ci siamo immaginati tutte le circostanze in cui quei dialoghi e quelle azioni si sviluppano, cercando di differenziarle nei limiti dei parametri consentiti. Quindi, si può dire che il nostro è stato un lavoro di costruzione di una partitura che non potevamo permetterci di sforare mai perché sennò si sarebbe perso il gioco delle differenze. Chiaramente nell’immaginare quelle situazioni, le idee “si accendevano subito” anche perché difficilmente qualcuno non ha vissuto questo tipo di situazioni, l’incontro con una persona che ti piace, un primo appuntamento, un tradimento o il dolore di una perdita. Ed è quest’estrema semplicità degli accadimenti la chiave che consente al pubblico di accedere radicalmente allo spettacolo. In tutto questo, la scienza è introdotta dal mio personaggio, una cosmologa. La scienza entra in scena attraverso la mia mentalità e si rispecchia nel mio modo di vivere, nel modo di ragionare, nel non avere dogmi, nel non avere pregiudizi e nella mia libertà. Non abbiamo dialogo teorico tra scienziati, abbiamo un’umana visione del mondo fortemente condizionata dalla cosmologia, un lavoro così radicale che inevitabilmente condiziona tutti gli aspetti della vita di una persona.

La tua carriera si divide equamente tra cinema e teatro. Qual è stato il tuo primo amore?

Il mio grande amore da spettatrice è sempre stato il cinema. Da attore, il teatro è uno strumento irrinunciabile. Il cinema è lo strumento dei registi e dei montatori. Per un attore, il teatro è la dimensione più naturale che ti fornisce la più grande libertà. La macchina del cinema crea delle limitazioni molto forti: l’inquadratura, l’entrare e l’uscire da una storia in modo assolutamente frammentario, girando prima la fine e poi l’inizio e poi la metà di una storia. Il mestiere dell’attore al cinema è complicato da una macchina che l’attore non comanda.

Date queste premesse, qual è l’impressione che trai nel rivederti al cinema? Ti sembra di avere comunque trovato una libertà di azione o ti vedi limitata?

Se vedo che non ho libertà vuol dire che non ho recitato bene. Il recitare bene davanti alla macchina da presa vuol dire conquistarsela comunque quella libertà tra mille paletti. Il teatro è l’ambiente più squisitamente congeniale all’attore, l’attore che fa bene al cinema è l’attore che quella libertà riesce ugualmente a trovarla nonostante la macchina cinematografica sia così complessa ed ingombrante.

Rispetto al teatro dove la condivisione con il pubblico del qui e ora si ripete ogni sera, al cinema le cose funzionano diversamente e si ha quasi la sensazione di poter cristallizzare la storia di una vita e di poterla riprodurre infinite volte.

Il teatro, invece, esiste solo negli occhi di chi guarda. Fare teatro, diceva Jean Vilard, è come scrivere sull’acqua. In questa loro diversità, pensi che l’uno abbia maggiori punti di forza rispetto all’altro o pensi che abbiano la stessa forza nel rappresentare la realtà?

Purché siano veri; il teatro per un certo periodo di tempo mi aveva annoiata perché facevo fatica a trovare una corrispondenza con la realtà, paradossalmente la performance mi sembrava più artefatta di quella cinematografica pur essendo dal vivo. Ma in realtà, per fortuna, esiste un teatro che ha l’ambizione di accadere qui e ora. La nostra tradizione teatrale è spesso legata all’idea che l’attore sia una persona che scandisce bene le parole, che ha una presenza importante e comunque siamo tutti d’accordo che non accade nulla di reale e che stiamo tutti facendo finta. Questo tipo di performance non mi interessa né da spettatrice né da attrice. Quando invece il teatro accade davvero, diventa pericoloso, allora mi piace moltissimo e mi dà la stessa soddisfazione di un film.

Sai, la macchina da presa ti fa una radiografia, è come una lente d’ingrandimento, non la puoi fregare. In teatro, benché sia dal vivo, la distanza che c’è tra l’attore e il pubblico permette di fregarlo. Quando il teatro “frega” non mi interessa, quando diventa radiografia, mi interessa. E da spettatrice posso dire che le due esperienze si equivalgono. Mi sono commossa vedendo Beckett fatto da Peter Brook così come ieri sera mi sono commossa vedendo al cinema Close. In entrambi i casi stai vedendo qualcosa che sta accadendo davvero davanti ai tuoi occhi, in un caso dal vivo, nell’altro no, ma comunque sta accadendo qualcosa di reale, c’è qualcuno che si sta mettendo a nudo, che sta facendo una ricerca onesta. Quando il cinema è generico, superficiale, basato su stereotipi, te ne accorgi subito, il teatro te la può dare a bere.

Siamo in una realtà mediale dominata dalla frammentarietà. In questo nuovo ecosistema dell’immagine, trovi che un mezzo di comunicazione come il Cinema che ci fornisce una visione continuativa di una/due ore non sia più un mezzo adeguato a raccontare la realtà?

Le persone non hanno più la capacità di concentrazione e le piattaforme hanno demotivato il pubblico che trova molto più comodo guardare un film dal divano di casa. Ma bisogna riscoprire che il cinema è un momento di condivisione, è il piacere di condividere la visione del film insieme a qualcuno, di condividerne le emozioni, di discuterne insieme. È un’esperienza al di là del film stesso. Speriamo che i giovani ne riscoprano il valore.

Una mia curiosità. Nell’ultimo periodo hai collaborato con grandi registi, tra cui Nanni Moretti con il quale hai girato Tre piani. Qual è stato il tuo rapporto professionale con lui?

Nanni è un mondo, è un autore con una sua estetica, una sua visione del mondo molto precisa, con una estetica e una visione della recitazione molto precisa. Quindi quando lavori con lui ti devi disarmare, devi lasciarti guidare dalla sua modalità che ti porta a togliere il più possibile ad essere il più semplice possibile. Non è un percorso facile ma è coerente con la sua idea di cinema. è un’esperienza molto ricca e molto bella.

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