Sermon to the Fish, di Hilal Baydarov

Appare sempre più rassegnato lo sguardo di Baydarov, come fosse ormai imprigionato in una parabola discendente. E sembra quasi aver condannato alla fine il suo cinema. In concorso a Locarno 75

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Davud ritorna a casa dopo aver combattuto al fronte della guerra in Nagorno-Karabakh. Ad attenderlo c’è la sorella e nessun altro. Tutti gli abitanti del villaggio sono scomparsi per una malattia. “Tutto è imputridito e morto”, ripete la ragazza. Anche lei sta deperendo. A poco a poco, ma inesorabilmente. E intorno, tra i fuochi dei cadaveri che bruciano, tra i cani e i pozzi petroliferi abbandonati, non c’è più nulla. Solo desolazione e odore di fine. Davud deve affrontare i traumi della guerra e i fantasmi dei compagni caduti. La sorella è soltanto in attesa della fine. Mentre il petrolio sta contaminando le falde acquifere e condannando a morte i pesci.

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Appare sempre più rassegnato lo sguardo di Hilal Baydarov, come se fosse ormai imprigionato in una parabola discendente ripidissima. Già si era notato uno scarto tra In Between Dying, una delle illuminazioni della Mostra di Venezia 2020, e il successivo Crane Lantern. Un tono più cupo, una minore disponibilità a scorgere nella tragedia e nel dolore l’occasione di un’elaborazione e di una redenzione. Ora, con l’ultimo capitolo di quest’ideale percorso, la caduta è senza più freni, senza più margini di attrito. C’è sempre il personaggio di Davud, interpretato da Orkhan Iskandarli, a far da guida, come nei due film precedenti. Ma il suo movimento è ormai azzerato in un’impasse dell’azione, stretto nella morsa di un cortocircuito tutto mentale. Ogni parametro vitale è prossimo allo spegnimento.

Eppure il titolo fa riferimento al miracolo del sermone di Sant’Antonio da Padova, che per convertire gli eretici che hanno in pugno Rimini, non potendo predicare direttamente alle genti, rivolge le sue esortazioni ai pesci, che affiorano sulla superficie del mare per ascoltarlo. Qui, però, le invocazioni e le preghiere, che punteggiano tutto il film, sembrano cadere nel vuoto. Sono una lamentazione funebre, che rimandano semmai a un altro tempo e a un’altra dimensione la possibilità di una liberazione. Baydarov si aggrappa ancora alla fede, ma è un isolamento ascetico, un’ultima, estrema presa di posizione contro l’inferno che incombe. L’orizzonte della salvezza, in verità, è sempre più distante.

Tutto questo ovviamente pesa come un fardello sul film. In Between Dying seguiva il ritmo ripetitivo di una litania fino a una specie di trance capace di liberare lo sguardo e l’attenzione dall’ossessiva scansione drammatica. Qui, invece, non c’è nulla di liberatorio. La cura dell’inquadratura diventa una prigione. L’inquadratura fissa, Il campo lungo, la composizione del quadro, il ritmo lento sono delle gabbie asfittiche. I simboli si fanno opachi, incapaci di riflettere altro. Stanno là come macigni. E neanche la musica di Kanan Rustamli vale ad aprire le immagini. Resta solo la fascinazione estetica, ormai priva di ogni vita. È come se nella contemplazione della morte, Baydarov avesse condannato alla fine anche il suo cinema. Come in un suicidio per immuramento. Anche se uno spiraglio di luce resta alla fine. Forse è una promessa di resurrezione. Forse un ultimo gesto di pudore.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.3
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