"Skyline", di Colin e Greg Strause
Il cinema dei fratelli Strause compie un vero e proprio furto dell'immaginario: non v’è in Skyline un’immagine, un’inquadratura, una sequenza che non rimandi ad altro. Nulla vive di vita propria, ma solo in virtù di quanto è già stato, assimilato, visto. Dinanzi a una Los Angeles mai così asettica e patinata, l'unico rifugio per lo spettatore diviene la memoria della lettura, grazie a Wells e alla sua Guerra dei mondi: testo che gli Strause dimostrano di conoscere fin troppo bene
Sin dalla prima inquadratura, capiamo di essere già stati qui: la ripresa aerea notturna dei grattacieli di Los Angeles, come un biglietto da visita dove non ci sia scritto sopra alcun nome, e che potrebbe quindi appartenere a chiunque. O a nessuno. Il cinema dei fratelli Strause, come già nell’esordio Alien vs. Predator 2, è una factory dal vago sapore autarchico, una piccola industria di famiglia in grado di produrre un blockbuster indipendente, senza appoggiarsi ad alcuna major. Ma nonostante questa lodevole iniziativa, il loro è anche un cinema ladro di immagini, anzi di immaginario: non v’è in Skyline un’immagine, un’inquadratura, una sequenza che non rimandi ad altro. Nulla vive di vita propria, ma solo in virtù di quanto è già stato, assimilato, visto: dalla metropoli notturna ripresa con telecamere ad alta definizione, dalla quale ci aspettiamo venir fuori da un momento all’altro il taxi arancione di Jamie Foxx e Tom Cruise in Collateral (con tanto di riprese perpendicolari dall’alto), ai combattimenti aerei di Independence Day, alle creature digitali di Cloverfield. Ma soprattutto, è La guerra dei mondi a tornare sempre, non tanto quella raccontata dalla versione cinematografica di Spielberg (e nemmeno quella di Byron Haskin), quanto quella del capolavoro letterario di H.G. Wells. Materia narrativa che i fratelli registi dimostrano di conoscere bene, citandola a più riprese: dalla fuga via mare vista come unica speranza di salvezza, alle sentinelle tentacolari in cerca di esseri umani. Come nel romanzo inoltre – e questo è l’aspetto più rilevante – l’invasione aliena è vista attraverso lo spioncino, cioè dal punto di vista di persone comuni che cercano in tutti i modi di sopravvivere: e quindi, come aveva ben intuito già Spielberg, nessuna concessione a certi luoghi comuni del genere, come ad esempio la distruzione di luoghi simbolo o l’adozione del punto di vista dei militari nelle sequenze di battaglia. Ma questo non è sufficiente: Skyline è il trionfo di un’estetica e di una narrazione tutta di riporto, la denuncia di un’impossibilità comunicativa che trasforma il film in un contenitore vuoto sia nella forma che nella sostanza. Mai si era vista al cinema una Los Angeles così asettica, patinata e meritevole di venire rasa al suolo: e se qui svelassimo l’incredibile finale della pellicola, in pochi sarebbero disposti a credervi. Dopo più di 110 anni, le parole di Wells sono ancora un campanello di allarme per la civiltà, un testo ricchissimo in grado di minare le certezze del lettore; invece, al contrario, le immagini piatte di Skyline sin da subito ci appaiono terribilmente vecchie. Come se il cinema non riuscisse più non tanto a creare un immaginario, ma neanche a rifondarlo. E allora, come nel finale di Minority Report (Spielberg torna sempre), quando l'immagine perde significato e fallisce il suo obiettivo, l'unico rifugio possibile per l'occhio resta il momento della lettura.
Titolo originale: id.
Regia: Colin e Greg Strause
Interpreti: Eric Balfour, Scottie Thompson, David Zayas, Donald Faison, Brittany Daniel, Crystal Reed
Origine: USA, 2010