SPECIALE BLACKHAT – La galassia della visione

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Il cinema di Michael Mann, arte del movimento e dell'immagine digitale, viene dalla pittura o va verso la pittura, presenza immobile ma tanto più libera dal suo rapporto con ogni rappresentazione del reale. Da Sentieri selvaggi Magazine n.16 il nostro speciale su Mann e Blackhat

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blackhatLa visione non è più un evento, ma il cinema non muore affatto, il cinema sopravvive anzi, si espande oltre il buio della sala. Lungo tutto l’arco del Novecento, il cinema è stato una stella luminosissima e ben visibile sopra le nostre teste, o al massimo alla stessa altezza. Ora non lo è più. È intervenuta una deflagrazione cosmica, e quella stella è esplosa in mille soli, che a loro volta catturano nuovo materiale celeste, hanno formato nuovi sistemi, governano nuovi pianeti. La sostanza di cui il cinema era fatto continua a essere presente in questi nuovi corpi spaziali, ma quello che ora abbiamo è una configurazione assai più ampia e diversificata. Ci sono sorgenti luminose al centro della spirale e ai bordi dell’universo; alcune virate sull’ultravioletto, altre ormai quasi opache. Ci sono nuove costellazioni e nuove orbite. E c’è un tappeto luminoso che occupa tutto il nostro cielo, e che si accende non soltanto nelle notti d’estate. Per noi, abitanti di un nuovo secolo, anzi, di un nuovo millennio, il cinema è proprio questo con Michael Mann. Bisogna abituarsi, quando si dice “cinema”, a non pensare più soltanto ad un certo apparecchio, all’ambiente in cui funzionava e quindi alle opere pensate per quella precisa situazione; nell’era della convergenza, le metamorfosi dello spazio-tempo cinematografico riaffermano piuttosto quella duttilità estetica e sociale che rimane la più autentica e preziosa caratteristica del cinema e che gli consente di tenere il passo della cultura visuale contemporanea. Mappando i paesaggi del cinema di Michael Mann, del cinema che viene, intercettando da vicino un oggetto sempre fuggevole, anche quando per farlo occorre inseguirne la pervasività su un blog o siti alternativi, oppure indagarne le forme di fruizione all’apparenza più minute e di routine. La nuova vita delle immagini in movimento è la prova, come direbbe Raymond Bellour, che la fine del cinema “è una fine che non finisce mai di finire”. Così il cinema di Michael Mann, arte del movimento e dell'immagine digitale, viene dalla pittura o va verso la pittura, presenza immobile ma tanto più libera dal suo rapporto con ogni rappresentazione del reale.

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strade violenteRilocazione. L’influenza del polar, di Huston e Melville, smontaggio e riassemblaggio del genere, attraversando strade violente, nel luogo di destinazione, lasciando integra la struttura. L’evidenza nel Michael Mann notturno non allude a ciò che cade sotto i nostri sensi, ma apre possibilità percettive; non è proprietà di qualcosa che si impone immediatamente alla vista, ma verità misteriosa.

Reliquie/icone. Mann non si limita ad interrogare il pensiero segreto del reale o a collocare ogni forma nel passato, ha il potere supremo di condurci dentro il presente. Non ha bisogno di descrivere una folla: può starci in mezzo. Non ha bisogno di analizzare un volto: può avvicinarne uno. Non ha bisogno di lamentarsi: può mostrare le lacrime. Lo psichiatra antropofago, reliquia o icona? Il suo volto permette di osservare, come specchiati, i nostri patimenti nelle sue sofferenze. Nei suoi frammenti di un omicidio, la freccia del tempo possiede l’intenzionalità e l’incertezza del movimento della vita nelle strade.

 

blackhatAssemblage. Tutte le ore feriscono… l’ultima uccide. Dire quello che si pensa e fare quello che si dice è un perfetta composizione, la sfida polimaterica tra il bene e il male, della realtà che non va solo registrata fedelmente. Spesso, mostra una notevole resistenza: non si fa cogliere nel suo senso più profondo. Richiede appostamenti, studio, intimità, consuetudine, abilità. Non è un dato, ma un effetto. Dobbiamo riappropriarcene. Bisogna starle addosso, tenendola però a distanza. Va mediata, e poi interpellata e sollecitata. Per essere detta e rivissuta, deve essere stata trasfigurata. Per suggerirne la complessità, va ricostruita.

Espansione. Michael Mann modella le immagini. Salva alcuni attimi da un destino crudele. Redime il transitorio: trasforma ciò che è in un esser stato ancora palpitante. L’ultimo dei nativi è, ancora una volta, reliquia o icona? Egli sottrae dettagli dell’attualità al loro deperimento, fino a condurli verso una superiore forma d’esistenza, in un’esperienza intensa. Si fa voce di quella “condizione postuma”, abita la “posterità assoluta”, perché la rappresentazione dei fatti avviene sempre dopo che i fatti stessi sono avvenuti. Mann fa rivivere il fantasma di quel momento. Dietro la verità, si crede senza credere, ma questo resta pur sempre un modo di credere; abbiamo la certezza che quel momento sia esistito al di fuori della pellicola? O la pellicola è garanzia dell’esistenza di quel momento?

 

nemico pubblicoDisplay. A queste domande si potrebbe rispondere con inquadrature parziali, ritrarre scorci “veri”. Il cinema non solo schiaccia gli spessori dei luoghi in cui quotidianamente ci muoviamo, ma rimonta architetture. Dallo specchietto collateral la percezione è falsata, d’incanto ci porta altrove. Suggerisce tensioni e azioni. È puro movimento, ci porta dentro la scena. Implica sempre uno spostamento. Restiamo qui, ma mentre osserviamo, la nostra immaginazione viene trascinata fuori. Appena si spengono le luci riflettenti si accendono quelle fluorescenti e la superficie piatta si trasforma: non più muro, ma distesa piena di avvenimenti, personaggi e il coyote. Guardiamo qui, ma possiamo spingerci altrove. La morte solitaria in metrò è viaggiare in bilico tra riconoscimento e disorientamento.

Performance. Nella galassia della visione, verso l’orizzonte degli eventi, le tele sono sempre più costellazioni astratte. Nemico pubblico è l’astratto, il mondo prosciugato dal vuoto e dal silenzio. Ma il cinema si fa ancora di più avventura dei sensi, assecondando il moto delle forme, il darsi e il ritrarsi dei corpi. Bye, bye blackbird e blackhat? Dissolve i dettagli figurativi in macchie che non sono imbrigliate dentro griglie rigide, ma si dispongono in aloni soffusi e in velature chiaroscurali. L’orizzonte è come un muro leggero. Definisce linee che non bloccano l’occhio, ma lo fanno errare lungo continenti inesplorati. E così il cielo di Miami è sempre in dialogo con la terra: l’abbraccia, si congiunge con essa. Dimensioni che si accostano, per fondersi. Vi sono soltanto labili cesure: universi che riconoscono la loro ragion d’essere in una fragile e devastante bellezza.

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