SPECIALE GEN Z – Che futuro ci resta, dopo le immagini?

La nostra è un’odissea nello spazio dove il punto fermo terrestre è andato perso. E il nostro senso di realtà è pura fantascienza.

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Cresciuti in un mondo che non esiste più, noi della generazione Z siamo i primi testimoni di una decostruzione sociale che sta pian piano ponendo le basi per una ricostruzione, diversa e colorata come Barbieland. Eppure, tutta quella plastica che Greta combatte quotidianamente, ci interroga su ciò che resta del futuro, e di conseguenza, ciò che resta del passato.

Tra fake news, identità false e identità rubate, la nostra esperienza dei social ci ingloba in una dimensione-gioco costante – quasi il nostro scopo di vita fosse quello di trovare l’easter egg di Ready Player One, da qualche parte nel metaverso.

Non si ha tempo per riflettere, ogni giorno veniamo bombardati da notizie che ci scivolano addosso, abbreviando ulteriormente quella distanza che c’è tra le immagini “reali” di un telegiornale e quelle immagini in movimento, architettate e modificate per intrattenerci su una piattaforma. C’è chi risponde con uno scetticismo inconsapevole, chi si gode tutti i colori di questo arcobaleno “liberato” e sgargiante (pensiamo anche al viaggio protagonista di Gasoline Rainbow), chi, come un pendolo, alterna momenti di entusiasmo a un bisogno di fuga.

Don Siegel è morto, però, e Alcatraz è stata chiusa. Non si può scappare da un luogo che non esiste – ed è questa l’impressione più intensa che questa realtà ci dona: un’alienazione costante, un senso di liquidità inafferrabile. Alle baraccopoli distopiche, si alternano complotti politici e sociali che non fanno che nutrire l’immaginario collettivo, rappresentato per lo più sull’evanescenza dello schermo. Alle paure reali rispondiamo con nuove raffigurazioni, riorganizzando un’iconografia del nuovo mondo. Siamo anche i primi creatori di questa “guerra lampo” di reel, dove il linguaggio si riconfigura costantemente, unendo a una ricerca di sintesi dei corpi loquaci ed elastici, capaci di trasmettere un messaggio, un’ideologia con solo pochi secondi a disposizione.

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Ma qual è quest’ideologia, esattamente, se nello sfociare delle libertà ci sentiamo censurati dal politically correct, se nelle lotte all’eguaglianza ritroviamo il paradosso del corpo di Barbie?

La nostra è un’odissea nello spazio dove il punto fermo terrestre è andato perso. E possiamo essere fieri di questi cambiamenti che hanno sciolto vincoli sociali e culturali ma possiamo anche provare a fermarci e a capire – nel frastuono al quale siamo sottoposti – che cosa ci resta. Ciò che abbiamo studiato a scuola non è più valido – le immagini che ci hanno accompagnato quando eravamo bambini e adolescenti sono ora testimonianze di uno star system malato e colpevole. In una cancel culture che vorrebbe riscrivere Roald Dahl, dove il nuovo mito maschile è rappresentato da Chalamet e le donne sembrano delle eroine Marvel capaci di fare tutto, dalla casalinga all’amazzone, come ha dimostrato Florence Pugh durante i mesi di lockdown; il nostro senso di realtà è pura fantascienza.

Viviamo in mancanza del tempo – lo schermo se l’è inghiottito. Il nostro rapporto con le immagini va certo studiato, perché si tratta di un punto di vista ben diverso da quello delle generazioni che ci hanno preceduto ma in questo nostro fungere da “cavie” ci resta della rabbia fatta, anche, di incomprensioni. Possiamo reinventarci il lavoro; quello reale, però, non ci spetta di diritto, o almeno così sembra. E tra le tante versioni distopiche che ci hanno fatto sognare, nutrendo le nostre passioni cinefile, un orizzonte grigio ci si spiana davanti. Che futuro ci resta, dopo le immagini?

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