SPECIALE STAND BY ME – Stranger (Summer) Things

Non è affatto vero che il famigerato effetto nostalgia sia la scappatoia più facile per tempi come questi, in cui guardarsi indietro fa più comodo che guardare avanti. La nostra sui Duffer Bros

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A sole due settimane dalla comparsa di Stranger Things sulla piattaforma Netflix, la rete ha già decretato lo statuto di culto della serie creata dai Duffer Brothers. Attraverso il tam-tam sui social network, certo: ma nemmeno la critica ufficiale sembra essere rimasta indifferente, grazie alla pubblicazione di una serie di riflessioni più o meno positive, più o meno entusiastiche, ma tutte comunque frutto di una visione consapevole e matura di un prodotto che è arrivato a sconvolgere le visioni pigre e accaldate di questa estate 2016. Ma poi, perché Netflix ha deciso la programmazione di Stranger Things proprio in estate? Ignoro volutamente le ragioni di palinsesto e fingo di credere che la vera motivazione sia una soltanto: e cioè che ci siano storie che possono essere raccontate, mostrate e viste soltanto adesso. In queste settimane, in queste serate.

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Abbraccio fino in fondo il taglio autobiografico richiesto dallo speciale e vado oltre, anche a

3 costo di compromettere l’interesse del lettore: me ne scuso. Ho visto Stranger Things a casa da solo, nell’arco di tre serate consecutive che si sono protratte fino a tarda notte, ed è stato bellissimo. Per la serie in sé, certo, la cui valutazione oggettiva passa necessariamente per alcuni aspetti che tutti, più o meno, hanno riconosciuto e valorizzato: la narrazione coerente ed appassionante, libera (finalmente!) dai vincoli del colpo di scena o del twist-ending; la costruzione di personaggi credibili nella loro quotidianità; la rievocazione nostalgica di un decennio che ha formato l’immaginario di buona parte degli spettatori a cui i fratelli Duffer si rivolgono. Tutto vero, ma deve anche esserci dell’altro.

 

1Per quanto mi riguarda, e nell’ottica di questo speciale, il surplus della serie è dato soprattutto nel suo essere l’eredità di tutta una serie di visioni che inevitabilmente hanno ricoperto un ruolo preponderante nella mia formazione di spettatore. Senza remore, senza vergogne, senza distinzione tra guilty pleasures o prodotti di qualità: del resto ciascuno di voi avrà certamente esperienze simili da raccontare. Da che ne ho memoria, l’estate è sempre stata il periodo degli appassionamenti, in qualsiasi campo o settore: alcuni sono durati il tempo di una stagione (o anche meno), altri mi accompagnano tuttora. Tra questi ultimi, la passione per l’horror e il fantastico, visti dapprima come uno strumento di evasione inedito e sconvolgente per gli occhi di un novenne e poi, con il trascorrere del tempo, come un filtro opaco, sporco eppure lucidissimo per cercare di mettere a fuoco la realtà. Vedere Stranger Things in queste afose serate estive è stato come scorrere nuovamente per la prima volta la parete della sezione horror del videonoleggio che mi ha cambiato la vita, quando ci si sentiva abbastanza grandi per abbandonare i classici Disney e mettere timidamente piede in un regno oscuro e sotterraneo. Esattamente come il mondo “sottosopra” in cui viene rapito il piccolo Will, appunto. Ricordo le collette messe insieme con amici e cugini per approfittare del 4×3 estivo e portarsi a casa bustone di videocassette da vedere insieme, di pomeriggio ma con le persiane rigorosamente abbassate: fu così che conobbi Dario Argento (Suspiria e Phenomena nello stesso giorno), Wes Craven (Nightmare), George Romero (Creepshow), John Carpenter (Halloween), Sam Raimi (La casa), perfino Don Coscarelli (Phantasm, che la prima volta fece schifo un po’ a tutti quanti…). E poi i Dylan Dog (nel suo periodo di massimo splendore e portata dialettica), i primi Stephen King letti e prestati e ricevuti.

 

Ma se c’è una serie di visioni che Stranger Things richiama a più non posso, sono 2quelle appartenenti al ciclo Notte Horror di Italia 1, il martedì in seconda serata. Visioni rigorosamente solitarie, al buio e con il volume bassissimo per non farsi scoprire, seguite il giorno dopo da un accorato dibattito tra amici che mi piace pensare come ai primi cineforum – perché no? – ai quali presi parte. Grazie a internet oggi è facilmente rintracciabile l’intero elenco di quelle programmazioni (qui, ad esempio), e fa davvero uno strano effetto attribuire un giorno, una data esatta a un ricordo portato dentro per così tanto tempo. Per quanto mi riguarda fu seminale soprattutto il periodo che va dal 1995 al 2001, prima che il programma degenerasse in horror giovanilistici di scarso interesse già allora. Non tutti i titoli sono meritevoli dello statuto che la mia memoria gli attribuisce, ma come si può essere obiettivi davanti alla storia dei propri amori?

 

vlcsnap-2016-08-01-00h08m31s763Mi era stato chiesto un pezzo su Stranger Things, ma della serie in sé non ho detto quasi nulla, me ne rendo conto. Pazienza, penne e menti certamente migliori della mia hanno scritto o scriveranno quello che c’è da dire. Una cosa però mi preme sottolinearla, perché non è affatto vero che il famigerato effetto nostalgia sia sempre e comunque la scappatoia più facile per tempi come questi, in cui guardarsi indietro fa più comodo che guardare avanti. È vero, ci sono i poster di The Thing e Evil Dead alle pareti, le miniature di Dungeons & Dragons, le scatole di giochi da tavolo, lo score elettronico di Kyle Dixon e Michael Stein, i romanzi di Stephen King evocati già dal font dei titoli, le strizzatine d’occhio cinefile e tutto il resto. Ma c’è soprattutto l’intenzione di utilizzare quel fantastico e quell’epoca per raccontare una zona d’ombra che non tutti sembrano voler vedere: come già in Super 8 di J.J. Abrams (che iniziava con la morte della madre del giovane protagonista, e mica per caso), anche qui la progressione horror/fantascientifica mi sembra il viatico (doloroso, ma necessario) per venire a patti con i propri fantasmi, esattamente come quel montaggio alternato – ripreso più volte in diversi momenti nell’arco degli otto episodi – attraverso il quale la ricerca del piccolo Will coincide con i flashback delle fasi più tragiche della malattia e della morte della figlia dello sceriffo Hopper. Ed è soltanto un esempio. C’è tutta una malinconia sottesa che va ben oltre il vintage e la nostalgia fine a se stessa. Come a dire: deve essere stato davvero bello e divertente e cool vivere e crescere negli Eighties, ma il malessere del presente nasce (anche) da quel decennio che tutti credevamo meraviglioso, e che forse tale non era fino in fondo. È un aspetto interessante e un approccio tutt’altro che banale alla materia, ma che nel caso di Stranger Things in pochi hanno individuato. Pensiamoci su.

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