Stoma, di Kit Hung

Racconto semi-autobiografico sulla vita dell’artista visivo Julian Lee, scomparso prematuramente. Questa sera al Farnese a Roma per l’Asian Film Festival 2021

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In concorso alla diciottesima edizione dell’Asian Film Festival, Stoma è il racconto semi-autobiografico del defunto fotografo, regista e artista visivo Julian Lee. Egli non è solo il soggetto del film, ma anche lo sceneggiatore e co-regista originale. Sfortunatamente è morto a causa della sua battaglia contro un raro tipo di cancro, come illustrato nel film, non potendo così dirigere la sua storia.

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A un fotografo omosessuale hongkonghese di 28 anni dalla vita mondana eccitante e ricca di colore viene diagnosticato un tumore peritoneo. Per poter guarire intraprende un viaggio, sia fisico che metaforico, partendo dalla Cina per l’Europa così da ricevere le cure necessarie che il suo paese non può dargli, accettando di rimanere con il fratello in attesa di un’operazione salvavita. Nel frattempo vivrà anche un turbolento incontro con il suo amante. Dopo il fallimento dell’operazione però, che prevede la sacca per la stomia, viene abbandonato sia dalla famiglia che dall’amante. Combatte quindi per la sopravvivenza e, con grande volontà, cerca di sconfiggere sia i problemi portati dalla malattia, nonché quei demoni che invece riguardano i lati non umani delle persone della sua vita.

L’opera prende la forma dell’esatta visione del fotografo, seppur contaminata dal punto di vista del regista, il che forma un ibrido ricco di personaggi per nulla empatici e di stili difficili da decifrare. Un film caratterizzato da due visioni, delle quali prevale sicuramente la narrazione di Lee, con una regia che cerca di star dietro alla prospettiva emotiva del suo soggetto-sceneggiatore. Julian Lee era un “visionario dei sensi”, e il film si struttura proprio in modo da tentare di richiamare i sensi di chi guarda ed evocare sensazioni. Uno sguardo unico, accompagnato da un’analisi critica sulle persone fotografate, che sfocia in più sguardi, così freddi e solitari, riferiti soprattutto a estranei. Sguardi che, attraverso la macchina fotografica, rubavano l’interiorità del soggetto, poi rigettata fuori attraverso un’esplosione visiva dei sensi; foto che ritraggono il maschile posto sempre al centro dell’attenzione, racchiudendo tutte le ossessioni del fotografo.

Il film rappresenta il percorso emotivo straziante di un uomo costretto ad affrontare la sua mortalità e a ricostruire la propria identità  sessuale; una storia di sopravvivenza, volta soprattutto a esporre una devastante crepa culturale: “nella società cinese tradizionale e conservatrice è difficile parlare di malattie o cancro a causa delle loro infauste implicazioni, e ancor di più lo è affrontare discussioni su sesso e omosessualità. Pertanto, essendo un omosessuale malato di cancro che dopo l’operazione inizia ad avere problemi legati al sesso, il protagonista diventa la vittima invisibile di una doppia discriminazione”, come ha rivelato lo stesso regista.

Stoma è un titolo ma anche una condizione. Non si tratta più solamente di far sentire la voce della comunità gay, ma anche quella di un omosessuale malato di cancro – di un uomo malato di cancro. E non un cancro qualsiasi, ma uno specifico, che mostra – il che succede di rado – come un problema visibile sul corpo maschile nudo possa portare a problemi soprattutto dal punto di vista sessuale. In un momento sconfortante, in cui deve affrontare un’operazione chirurgica importante da solo all’estero, il protagonista si lega all’unica persona che sente più vicina: il suo amante. Questo nonostante egli lo usi soltanto per il sesso, aprendo una parentesi realistica su storie di abuso e dipendenza emotiva tossica. Il regista ha saputo rendere veritiero tutto il percorso emotivo, trasmettendo allo spettatore l’intera sofferenza provata dal personaggio, esacerbato dal suo disperato bisogno di contatto umano, ancor di più quando l’amante che credeva la sua ancora di salvezza fugge proprio nel momento del bisogno, riluttante ad accettare l’operazione e la problematica derivatane, mostrando il suo lato meno umano.

Ciò avviene nella seconda parte del film, dove ogni tassello, preparato in precedenza, viene chiarito. La prima parte, invece, introduce i personaggi, preparando tutte le pedine per quella partita che può essere giocata solo con una fortissima volontà di vivere. Parte di questa volontà sfocia nel recupero della riscoperta della sua sessualità con altre persone, anche con chi condivide il suo stesso problema.

Il film si tinge di rosso, di verde, di giallo, di viola; letteralmente e metaforicamente, di colori che spesso assorbono le scene, anche quando si fanno più cruente – ma non intese in senso fisico: tutte le scene di sesso sono chiare e visibili integralmente – ma dal punto di vista emotivo. Non si tratta esattamente di un film pieno di colore, ma ce l’ha, e spunta fuori col montaggio tramite diverse dissolvenze incrociate, come a suggerire quali sono state le fasi più dolorose del viaggio.

Hung sfida il tradizionale portando storie come queste sul grande schermo. È fedele al percorso emotivo del personaggio rappresentando una nudità maschile che di rado si vede in questa tipologia di film. È tematicamente e politicamente importante mostrare un corpo maschile completamente nudo, per giunta con una stomia; relazioni senza veli e senza censure che ricordano al mondo cinese che questi uomini esistono, in un film che racchiude anche l’amore per la passione fisica e per la propria identità sessuale che ne deriva.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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