Three Thousand Years of Longing, di George Miller

Fuori Concorso a Cannes75, Miller realizza il suo multiverso per ribadire il potere delle storie anche in un’epoca in cui la tecnologia cerca di sopire la nostra dimensione percettiva più aperta

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Il panel tenuto dalla Dottoressa Binnie e dal suo collega turco lo chiarisce sin da subito: le figure magiche a cui l’umanità ha affidato lungo i millenni la spiegazione mitologica della dimensione soprannaturale e irrazionale dell’universo, non sono oggi scomparse, ma reincarnate nelle storie fantastiche di supereroi e simili. Non ci sembra casuale vedere una slide proiettata sul maxischermo alle spalle dei relatori, con tutti i personaggi Marvel e DC svolazzanti: sia Tilda Swinton che Idris Elba, i due interpreti del nuovo film di George Miller, hanno d’altronde militato nella scuderia MCU, tra Thor e Doctor Strange, e Miller sembra stavolta voler tra le altre cose proprio ribattere al predominio dei cinecomic come unica via per leggere la scintilla tra magia, misticismo e tecnologia che ancora regola le nostre vite traslate dalle dinamiche digitali (che è comunque il grande tema-chiave della Fase 4, tra WandaVision, No Way Home e Sam Raimi…). Alithea Binnie trova un genio nella lampada, o per meglio dire in un’ampolla acquistata nel mercato di Istanbul: ma l’essere immortale e ultramillenario che potrà esaudire per lei i classici tre desideri è uno “djinn elettromagnetico”, che come prima prova dei suoi poteri estrae un Albert Einstein dalla tv – “è la persona che ha spiegato come funzionano lo spazio e il tempo all’umanità”, dice la donna. “Era un mago?”, ribatte il Djinn. Ecco, Miller affronta direttamente la questione centrale del contemporaneo, ovvero come difendere a tutti i costi quella zona indefinita di libertà che c’è tra scienza e (ultra)percezione: d’altra parte, riuscire a prevedere proprio i nostri desideri futuri è la grande utopia dell’operazione di profilazione di massa in cui sverniamo da quando viviamo navigando tra i nostri device…
E allora, il film racconta tre incarnazioni nel corso delle epoche di questa entità sovrannaturale, sino ad arrivare al Djinn piombato nei nostri tempi, e incapace di schermarsi dai troppi stimoli della nostra contemporaneità elettrica, con il flusso di voci, immagini e dati che gli invadono la testa. Non è più possibile per una creatura “di fantasia” poter sopravvivere ai nostri tempi scanditi dai codici binari?
Qualche secolo prima, il genio si era innamorato, stavolta per davvero, di Zefir, donna in grado di predire le grandi scoperte matematiche e meccaniche dell’umanità successiva, grazie al desiderio esaudito di poter possedere “tutta la conoscenza”. Ma alla conoscenza serve l’amore, appunto, è viceversa: un legame che porta con sé effetti collaterali inevitabili.
George Miller fa un film che intorno a queste suggestioni costruisce, è il caso di dirlo, un multiverso personalissimo, che dialoga con le messinscene hollywoodiane del canone del presente ma rilancia costantemente una propria visione ancora una volta bigger than life, con sequenze che sembrano voler davvero esondare in ogni istante al di fuori dello schermo, travalicarne i limiti, come i tableaux vivant dell’Ang Lee più spinto. Sono sprazzi, certo, costruiti intorno soprattutto al lungo dialogo nella camera d’albergo tra la Dottoressa e il Djinn: entrambi si raccontano le rispettive esistenze, ma il fulcro del grande cuore che ancora una volta questo cinema mette a nudo è nella metafora esplicitata del potere delle storie.

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Alithea è una narratologa e in teoria dovrebbe conoscere a menadito le regole di ingaggio per uscire vincitrice dai trucchetti dei tre desideri proposti da un genio nella bottiglia, eppure finisce subito nella rete ammaliatrice per cui ogni desiderio porta con sé una storia che ne porta con sé un’altra, in una costellazione di narrazioni fragili, umanissime, felici e dolorose. Come nel Parnassus di Terry Gilliam, a dare un senso al nostro passaggio in questa esistenza sono anche qui le storie a cui partecipiamo, e di cui lasciamo una traccia che non importa più se veritiera, inventata, razionale o favolistica, purché sia la nostra, purché ci appartenga fino in fondo.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.7
Sending
Il voto dei lettori
2.75 (8 voti)
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