VENEZIA 68 – "Marécages", di Guy Edoin (Settimana della critica)


L' opera prima del regista Guy Edoit, è interessante sotto molti aspetti. La costruzione della fisionomia caratteriale dei personaggi e l’interazione fra loro è il punto di forza indiscusso del film. Che inoltre ha la rara capacità di passare, all’apparenza involontariamente, più volte da un punto di vista all’altro senza quasi che lo spettatore riesca a realizzarlo

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La storia di una famiglia disastrata, sfortunata, fuori dalle regole e dalla concezione del mondo civilizzato. In una fattoria in campagna, chissà dove nel Canada francese, madre e figlio si ritrovano d’improvviso a dover fronteggiare la perdita del padre/marito, dopo che qualche anno prima era morto anche il secondogenito. In più lo spettro della bancarotta e la concreta ipotesi di dover vendere la fattoria. Fra i due la frattura sembra insanabile; lei, che ha appena scoperto di essere incinta, lo incolpa della morte del marito. L’incidente fatale infatti è frutto di un’imperdonabile errore sul lavoro del ragazzo. Ad aggiungere benzina sul fuoco il nuovo spasimante della madre, un individuo rozzo e viscido che il figlio non manda giù.
Marécages, opera prima del regista Guy Edoit, è interessante sotto molti aspetti. Dal punto di vista registico; riprese mai banali e raramente uguali fra loro. Alterna camera a mano a camera fissa con disinvoltura. Forse gli si può rimproverare di essere, talvolta, eccessivamente innamorato dell’immagine, tanto da renderla talvolta fine a se stessa. I primi piani su dettagli apparentemente superflui, come lo stantuffo del trattore in movimento o il muso di una mucca, e la volontà di indugiare su paesaggi naturalistici, sì splendidi, ma poco funzionali alle dinamiche di maturazione dei rapporti fra i vari personaggi, in un certo qual modo, sembrano delle divagazioni sul tema.
Perché invece la costruzione della fisionomia caratteriale dei personaggi e l’interazione fra loro è il punto di forza indiscusso del film. Che inoltre ha la rara capacità di passare, all’apparenza involontariamente, più volte da un punto di vista all’altro senza quasi che lo spettatore riesca a realizzarlo. Così capiamo la difficoltà di un ragazzo in piena pubertà costretto a vivere in una fattoria, lontano da coetanei, privato di una comune adolescenza e dalla possibilità di esplorare un mondo i cui contorni gli sono ignoti. Senza dialoghi ridondanti e lunghe lamentele, diventa per noi un libro aperto. La sessualità incerta, cresciuto da una nonna lesbica e due genitori che non si curano troppo di nascondere occasionali sveltine. Soprattutto il conflittuale rapporto con la madre, talvolta ai nostri occhi morboso, ai limiti di una passione incestuosa.
D’altro canto, anche la protagonista femminile (la convincente Pascale Bussieres) è lontana anni luci dai canoni di normalità. Nel rapporto col figlio adolescente dà spesso l’impressione di essere lei quella più immatura, irresponsabile e menefreghista. Atteggiamenti tipici della teenager capricciosa e senza criterio. Emblematica la scena in cui, durante la festa di paese, va sulle giostre cercando una spensieratezza che non è più alla sua portata. Non mancherà di scontare il suo atteggiamento, finendo nel giogo di un uomo maschilista e meschino.
Un dramma senza appigli umoristici, una sentenza senz’appello su come la vita può essere insostenibilmente ingiusta. Dove non si diventa per forza persone migliori né si accetta senza riserve chi si è. Anzi, non si pone proprio il problema.
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