VENEZIA 70 – “Les terrasses”, di Merzak Allouache (Concorso)

les terrasses

Le storie che si intrecciano e si dipanano tra Les terrasses sono bozzetti, piccole linee. Sono tracce di vita quotidiana, che, pian piano, si compongono nella totalità di un paesaggio in cui le cose e i personaggi hanno un tratto accennato, ancora volutamente indefinito. Ma a un’osservazione prolungata, a seconda di come cambia la luce, quei tratti possono anche raggiungere un’altra intensità


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Da Bab El-Oued alla Casbah, dalle alture di Notre-Dame d’Afrique fino al centro, un’intera giornata vissuta tra i quartieri di Algeri. Dal Fajr, la preghiera dell’alba fino all’Isha, la preghiera della notte. Un arco di tempo ristretto che si moltiplica per la moltitudine dei vissuti e delle esperienze. La liturgia scandisce gli orari, i ritmi, le abitudini. Ma tra un atto e un altro di essa si è prodotta una voragine. Come se, effettivamente, una delle faglie che corrono sotto la città si fosse mossa con troppa forza. Come è chiaro che sia, dietro la forma di ogni devozione è nascosto un tradimento e il rito cede il passo al reale. E Allouache decide di raccontare proprio questo scollamento tra la fede e il vissuto, tra l'immagine e la sostanza. Anche a costo di forzare la mano e le situazioni e di risultare didascalico. Come quando mostra lo sheikh che non si fa scrupoli di ambire alle grazie di una giovane sposa venuta a chiedergli consiglio. O suggerisce che una riunione di preghiera è un’ottima occasione per spacciare droga.

 

Le storie che si intrecciano e si dipanano tra Les terrasses sono bozzetti, piccole linee, tracce. Tracce di vita quotidiana, che, pian piano, si compongono nella totalità di un paesaggio in cui le cose e i personaggi hanno un tratto solo accennato, ancora volutamente indefinito. Ma a un’osservazione prolungata e ripetuta, a seconda di come cambia la luce, quei tratti possono anche raggiungere un’altra intensità, addensarsi in grumi di colore ruvido e grezzo o aprirsi in scie che hanno la forma di schegge più taglienti: il vecchio zio pazzo rinchiuso a chiave, il boss che arriva a estremi insospettati, un amore platonico proibito che finisce male. Allouache sembra sempre più impegnato a mostrare il riflesso terribile e sconosciuto dell’Algeria moderna. Si muove nella sua città dolente, dove si sorride, si spera e si suona ancora, ma dove non sembra esserci davvero più spazio per la leggerezza di un altro Omar Gatlato.

 

“Il caos ha raggiunto i tetti della case”, dalle strade alle terrazze. E forse è proprio questa prospettiva dall’alto a consentire allo sguardo di sorvolare sui dettagli, di mantenersi a una distanza di sicurezza dalle implicazioni più dirompenti, dai melodrammi e dalle tragedie. A garantire, in altri termini, la sostanziale tenuta dell’impalcatura, del film e del mondo. Sarebbe occorso ben altro tempo o precisione, per andare a fondo. Sarebbe stato necessario escludere e scavare. Dall'altezza delle terrazza, invece, è ancora possibile riconoscere un’ironia nella miseria e nella sfortuna, come fa il vecchio commissario in pre-pensionato. O immaginare la libertà dell’innocenza. Del resto all’occhio del dio, il caos è un accidente.


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