#Venezia73 – São Jorge, di Marco Martins

Martins lavora sulla trama visiva e sonora del reale, per coglierne gli umori, le impressioni e da lì poi i punti critici. La morale di una scelta di linguaggio. In Orizzonti

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Seppur aveva mostrato i segni di un mondo che non vuole finire, in accordo con le visioni di Michelangelo Pistoletto, ora Marco Martins sembra aver visto le tracce di un altro pianeta e i presagi di un altro destino. Sta sulla faccia oscura della Terra, quella aperta sul baratro della crisi, venuta fuori dalla distruzione nucleare dei sogni di progresso e sviluppo, governata ormai dall’unica legge economica invincibile: l’abuso di potere.

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Il Santo Jorge di Martins è in realtà un disperato, senza soldi né prospettive. Silurato dalla fabbrica in cui lavorava, che ha mandato a casa gran parte dei suoi “compagni”, prova a continuare la sua carriera di pugile di serie B, per tirare su qualcosa a furia di mazzate. Ma non c’è molto da fare nel selvaggio dilettantismo dei suoi incontri quasi clandestini. E poi c’è un figlio da tirare su, dopo che la moglie, Susana, venuta dal Brasile, ha pensato di andarsene con un altro uomo. Almeno per ora… Per Jorge c’è sempre l’ossessione di riunire quella famiglia impossibile. E così si fa assumere come mastino per un’agenzia di recupero crediti “legalmente autorizzata”.

 

È questo il contesto che interessa a Martins. La crisi economica e gli interventi della “troika” europea, che ha semplificato le regole, normalizzando gli illeciti. Per far fronte ai fallimenti e all’insolvenza generalizzata dei debitori, le istituzioni hanno dato carta bianca alle agenzie di recupero, che, nell’intenzione di guadagnarci il più possibile, non hanno esitato a utilizzare qualsiasi mezzo, dall’intimidazione alla violenza fisica. Le denunce sono piovute a migliaia, ma senza alcun esito concreto. Ecco. Si tratta di un contesto dichiarato sin da subito, da quelle scritte iniziali che centrano il punto d’indagine e lasciano presagire l’intenzione documentaristica di Martins. Ma São Jorge è “un documentario mascherato da film da finzione”, in cui il plot, con le sue traiettorie più o meno lineari, si innesta nel complesso tessuto della realtà. E così le infinite peregrinazioni del protagonista, interpretato da un roccioso, letteralmente monumentale, Nuno Lopes, incrociano gli affanni degli imprenditori con l’acqua alla gola e il caos delle periferie di Lisbona, con quegli infiniti casermoni sempre sul punto di collassare che disegnano un’agghiacciante linea continua, con le comunità di immigrati che vivono, ballano, bevono e muoiono per strada, senza poter e dover nascondere nulla all’indiscrezione dei nostri sguardi.

 

Martins, nel affrontare questo mondo, non finge e non bara. Non sovraccarica né edulcora, non spinge sull’esibizione gratuita della violenza e dello squallore. Ma non si lascia neppur andare al populismo da borgata. Lavora sulla trama visiva e sonora del reale, per coglierne gli umori, le impressioni e da lì poi i punti critici, di frizione, le crepe del quadro. È un crescendo di tonalità cupe, nere, quasi inquinate dallo smog, dai fumi delle fabbriche e di suoni ossessivi, metallici, di industrie pesanti in via d’esplosione. A tratti si avverte il rischio di ritrovare all’angolo il Refn di Pusher o il Mereilles di City of God. Cioè quelli che macellano, chi con la pratica dell’incisione, come il trippaio, chi con quella della tritatura, come gli insaccatori professionali dopo un’adeguata speziatura e correzione dei sapori. Ma nulla di tutto questo. Marco Martins si tiene ben distante, il più delle volte aggrappandosi proprie all’imponente figura del protagonista, alle sue ansiose ricerche e alle sue umanissime incertezze. I lunghi secondi in cui si ferma sullo sguardo scioccato e smarrito di Jorge, lasciando fuoricampo la tragedia della vittima sacrificale è una lezione morale e un momento di intensità altissima, giocando tutto su una scelta di linguaggio. Il cinema mantiene le sue regole, in un mondo che ormai se ne fotte.

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