#Venezia75 – Nuestro Tiempo, di Carlos Reygadas
Stavolta le certezze filosofiche/intellettuali del regista sembrano sgretolarsi e finalmente rigenerarsi al cospetto di un interrogativo universale: si ama per rendere felice l’altro? Concorso
Lontano dalla metropoli e dai clamori, nelle distese e sconfinate campagne messicane, vive Juan (interpretato dallo stesso regista), poeta di fama internazionale, nonché allevatore di tori da combattimento e corride. Con lui, la moglie Ester (Natalia Lopez) e i figli. Lei aiuta il marito nell’attività e quando un giorno si invaghisce di Phil, un addestratore di cavalli, questa relazione porterà scompiglio nella coppia e rimetterà in discussione l’idilliaco mondo costruito intorno. Nonostante un approccio libero e progressista, Juan non accetta le bugie di Ester, inizialmente restia a confessare e costretta in vari modi a nascondere la relazione. Il “rifugio” coniugale lentamente si fa claustrofobico e le certezze filosofiche/intellettuali sembrano frantumarsi al cospetto di un perentorio, quanto universale, interrogativo: quando si ama qualcuno, quello che si cerca è veramente la sua felicità? Oppure si è disposti a spingersi fino ad un certo punto, oltre cui questo implicito atto di generosità non comporti troppe rinunce ed eccessivi compromessi? Autore sempre più complicato da decifrare, ma questa è certamente la forza del suo lavoro. Reygadas non rientra certamente tra i registi capaci sempre di segnare un solco tra la nostra volontà di perderci nelle immagini e il suo, a volte, manierismo stilistico. Stavolta però la parabola immaginifica trova lo spiraglio per farci emozionare e delinea i contorni dei corpi, più che altro, li espone con più coraggio e “umanità”. Reygadas, ancora una volta, non supera la frontiera della sua terra, e si cala nel suo tempo, nel suo spazio (pur vivendo da anni a Bruxelles), fatto magistralmente di fluorescenze sull’ottica e di montaggio alternato (bellissime alcune scene, come quelle iniziali nello stagno tra i bambini, o quella sotto una pioggia torrenziale, in cui Juan a cavallo, quasi incrocia il passo di Ester in macchina, che accelerando sulle buche, rievoca l’amplesso forse adultero in una camera forse d’albergo).
Stavolta il meccanismo, l’ingranaggio si espone, quasi a volerlo piegare al nostro sguardo in cerca spasmodica di autenticità, purezza, come l’amore vero. Ma il concetto amore al massimo si razionalizza e a volte si prova a penetrare, negli angoli di camere da letto, spiando e ansimando all’unisono, spingendo il punto di vista sui pezzi metallici del motore, perfezione di meccanica, ma terribilmente lontana dal cuore, dall’anima dell’irrazionale. Il concetto amore, dove il movimento di pistoni e cilindri non può arrivare, ci spinge quindi verso la poesia, alla parola fuori campo, atemporale, di voci infantili e sincere, di rohmeriana memoria. Così Reygadas segna il passo, facendo leggere lettere, email, pensieri, alla figlia di Juan, alla stessa Ester, atterrando in soggettiva (di persona) sulla pista degli inganni, della sopravvivenza emotiva quotidiana, dopo aver sorvolato il caos di arterie e cemento, stratificato e perso nel più assordante rumore bianco. E dove non arrivano le parole il vortice dei sentimenti catalizza l’attenzione sui colori street art, sulle simmetrie di Joseph Albers. Sempre in tensione, sull’orlo del precipizio, sul baratro della tragedia, non risparmiata alla consueta vittima sacrificale, un asino incornato e sventrato dalla ferocia di un toro imbestialito.
La tensione si avverte dai primi fotogrammi, si attende il punto di non ritorno, il colpo di grazia che non segue mai l’attesa, semplicemente la contorna di suspense, lasciandoci sguazzare nel fango delle passioni, dei presunti delitti e castighi. Stavolta Reygadas non si limita a punteggiare selvaggiamente, a reiterare impressioni e spasmi nel deserto, trova invece la (de)cadenza inesorabile anche del banale, del retorico, della vita reale. Proprio così, il presunto realismo magico è un’altra cosa ormai. I sentieri non sono più tortuosamente compiaciuti, ma trovano una sublime sinuosità e la battaglia nel cielo scende tra di noi, si adagia sulla soglia, rivela la fragilità del mondo in un sapere dissonante, spezza finalmente la falsa e aberrante totalità del reale, palesata in passato, scongiurando la rigidità e ritrovando la fluidità tra solenne e grossolano, volgare e sublime, pedanteria e frivolezza. In una presunta e ingannevole bellezza puramente estetica e statuaria, Reygadas restituisce così ai sensi, la verità, o quantomeno l’approssimarsi della lontananza come movimento reciproco, in una nuova e fertile Post tenebras lux.