VII ASIAN FILM FESTIVAL – "Hashi" di Sherman Ong

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Storia claustrofobica, fatta tutta di interni, dove si incontra uno dei lati meno conosciuti, per gli occidentali, della società giapponese. Difatti, il film di Ong offre significativi spunti di riflessione sociologica per coloro che posseggono sufficienti strumenti per leggere la contemporaneità di questo complesso paese. Mostrandoci la vita interna dei grandi grattacieli, il regista ci offre l'opportunità di vedere dal “di dentro” l'alienazione e lo scollamento umano in atto nel Giappone di oggi

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hashi di sherman ongdi Riccardo Rosati
Hashi (はし) in giapponese può voler dire varie cose, sebbene scritte con caratteri diversi: ponte, bacchette e margine o parte terminale. In concorso all'Asian Film Festival di Roma il film di Sherman Ong ci racconta un Giappone non facilmente comprensibile dal pubblico occidentale. 
 
La trama intreccia le esistenze di tre donne appartenenti a generazioni differenti: Momo, ventenne, Junko, trentenne e Shino, cinquantenne. La più giovane, per poter guadagnare qualcosa, provvede a portare ogni giorno i cosiddetti Obento: cibi freschi preparati in apposite scatole, in ufficio dove lavorano Shino e Junko. La loro vita sembra scorrere inesorabilmente verso un'inanimata ripetitività. La monotonia di questo rapporto a tre viene improvvisamente turbata da una telefonata dal primo fidanzato di Shino, e che la donna non vedeva da trent’anni.

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Sherman Ong, regista tra i più interessanti di quella che si può ormai considerare a pieno titolo la new wave di Singapore, realizza un'opera che al pubblico concede poco o nulla, proponendosi fredda, apparentemente inspiegabile e noiosamente circolare nella narrazione. L'assenza di movimenti di macchina conferma la vocazione antiformale della pellicola, dove troviamo anche uno scarsissimo uso dei campi ravvicinati, ai quali vengono sistematicamente preferiti quelli medi; malgrado questo renda talvolta persino sgradevole seguire una storia fatta quasi esclusivamente di dialoghi a due, facendo sentire lo spettatore quasi di troppo, come se stesse sbirciando dalla serratura di una porta. Suggestivo, sebbene estraniante, l'utilizzo sistematico dei suoni acusmatici; i quali ci mostrano un Giappone popolato di rumori continui e ovattati, a causa dei tanti condizionatori d'aria e delle onnipresenti macchinette refrigeranti per bibite di ogni sorta. 

 
Una storia decisamente claustrofobica, fatta tutta di interni, dove si incontra uno dei lati meno conosciuti, per gli occidentali, della società giapponese. Difatti, il film di Ong se da un lato pecca e molto verso il pubblico, dall'altro offre significativi spunti di riflessione sociologica per coloro che posseggono sufficienti strumenti per leggere la contemporaneità di questo complesso paese. Mostrandoci la vita interna dei grandi grattacieli, il regista ci offre l'opportunità di vedere dal “di dentro” l'alienazione e lo scollamento umano in atto nel Giappone di oggi. Fenomeno poi che non riguarda solamente le ultime generazioni, come del resto si vede anche in questa storia. 
In una trama tutta al femminile, dove i personaggi maschili fungono da semplici comparse, si affronta così in modo quasi provocatorio la scottante questione dell'alienazione nelle grandi società occidentalizzate d'Oriente.
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