Vita Nova, di Danilo Monte e Laura D’Amore

Al cinema Beltrade di Milano, domani 10 aprile, viene finalmente riproposto questo film del 2016, travagliato percorso della coppia d’autori alle prese con la fecondazione assistita

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Il lungo e travagliato percorso della coppia d’autori alle prese con la fecondazione assistita, tra procedure più o meno invasive, tempi di attesa, ansie, speranze, frustrazioni… Cinema immediatamente autobiografico, in linea con le “confessioni” di Danilo Monte che già in Memorie, in viaggio verso Auschwitz (2014) aveva provato a raccontare il rapporto con suo fratello. Qui a mettersi in gioco, in campo, è soprattutto Laura D’Amore, con una sincerità ai limiti dell’eccesso, mentre lo sguardo del registra quel che accade, quasi per caso, di nascosto o tutt’al più come una presenza di supporto. A metà strada tra la pura testimonianza e la partecipazione effettiva.

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Ma, forse, per entrare davvero nelle dinamiche emotive segrete di Vita Nova , occorrerebbe ripensare tutto alla luce dell’ultimo, piccolo cortometraggio di Danilo Monte, Il viaggio di nozze, che ne rappresenta in un certo senso il completamento. L’avventura in India, la clinica ayurvedica, ancora il desiderio di un figlio. E la voce di lui che racconta, che impreca e si lamenta per un mal di testa insopportabile, che non si placa neanche quando il percorso spirituale ed esistenziale della coppia sembra aver raggiunto il suo obiettivo.

Segno evidente di un’inquietudine personale, di una somatizzazione che già aveva trovato un suo sbocco espressivo nelle traiettorie sghembe e oblique delle immagini di Vita nova. A riprova della presenza concreta di Monte, del suo stare in campo sempre e comunque e non solo nei momenti in cui, con la voce rotta dalla tensione, intona Across the Universe dei Beatles…

Del resto, al di là dell’urgenza del tema, che interessa proprio nell’istante in cui scava nella profondità dell’animo dei “personaggi”, la forza di Vita Nova sta proprio nelle scelte di linguaggio. Nella volontà di non frapporre filtri tra l’immediatezza del riprendere e la verità della ripresa, di non cercare l’effetto estetico, la pulizia dell’inquadratura, il posizionamento esatto delle luci, la perfezione del sonoro, qualsiasi ipotesi di costruzione e, quindi, costrizione della messinscena a discapito dell’immediatezza e dell’imprevedibilità di ciò che accade davanti alla macchina da presa. Perché, stavolta, è più importante ciò che si muove sul piano della realtà (o meglio, della vita) rispetto a un’idea di composizione del quadro. E, dunque, le immagini conservano un margine di incompiutezza, incrociano frammenti di corpi e di gesti, lasciando agli occhi la libertà di perdersi nel fuoricampo e nelle ellissi del racconto. I movimenti della camera si fanno scomposti, imprevedibili, quasi faticosi, come se fossimo in presenza di un terzo occhio che osserva da vicino, ma sempre in un punto non definibile a priori, al di fuori della migliore taiettoria possibile. Più volte si rasenta il rischio di un’illeggibilità dell’immagine, eppure tutto il cuore emotivo della vicenda è lì, chiaro, nitido, prepotente. Il desiderio di maternità, il legame di coppia, l’ansia del tempo che passa, la freddezza burocratica della procedura medica… Da un lato c’è l’immediatezza del cinema diretto, una sorta di diario intimo che si offre, quasi in maniera impudica, agli sguardi estranei. Dall’altro c’è il paradosso di un dispositivo, che quanto più tende a ridursi al grado zero, al punto da farsi quasi inesistente, tanto meglio mostra le sue nervature e intelaiature, la consapevolezza teorica di un’utopia irraggiungibile, l’equivalenza tra cinema e vita.

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