ZEBRA CROSSING. A glitch in the matrix, di Rodney Ascher
Dopo il passaggio al Sundance Film Festival, approda in streaming on demand il nuovo doc del regista di Room 237 e The Nightmare. Lo ha visto Zebra Crossing
Ad una Code Conference Elon Musk diceva nel 2016:
“Se 40 anni fa avevamo Pong e oggi abbiamo le simulazioni fotorealistiche in 3D in cui milioni di utenti sono operanti contemporaneamente, e queste migliorano di giorno in giorno, e presto avremo sia la realtà virtuale che la realtà aumentata, allora, in una ipotesi di miglioramento progressivo, presto i giochi non saranno più distinguibili dalla realtà. Probabilmente già ora siamo in una simulazione” (traduzione mia).
La fondante clip è inserita dal documentarista Rodney Ascher nel suo ultimo lavoro A Glitch in the Matrix (visibile QUI dopo il passaggio all’ultimo Sundance). Ascher ha già dato prova di essere attento alla molteplicità di voci che possano allargare questioni stanti sul crinale della linea vero/falso possibile/impossibile. Succede nei suoi Room 237 o in The Nightmare.
Anche Glitch in the Matrix resta in equilibrio sulla soglia di incredulità, chiedendoci in modo potente in che tipo di realtà viviamo, se reale o simulata (qualora esista una differenza). Già solo il modo di costruzione del film porta subito ad una riflessione sul cinema di oggi, anno 2021. Potremmo dire che per farlo Ascher non si sia mai mosso dalla sedia del suo studio, avendo creato un’opera in cui le riprese reali (termine ormai totalmente vuoto) sono pari a zero. Tutto il prodotto è un assemblaggio di interviste fatte con i video modi che ora conosciamo bene (da zoom a skype etc), di estratti di film che conosciamo meglio (ovviamente Matrix ma anche Tron etc), di esterni ricreati in 3D usando Google Maps, di affascinati momenti di animazione grafica, e il tutto a convogliare un messaggio.
Messaggio che alla fine è composto da domande, dubbi, testimonianze ed eventualmente dati, mai da un’asserzione.
Messaggio che quindi verte sulla sola questione di fondo: “come facciamo ad essere sicuri di non vivere una simulazione?”.
Il richiamo è immediatamente a Philip K. Dick, che giustamente Ascher usa come fosse un Virgilio, suddividendo il lavoro in capitoli introdotti da estratti della famosa conferenza dello scrittore nel 1977 a Metz. Questo crea un terreno fertile in cui il dubbio facilmente si insinua. Se Dick apre le danze tocca alla morte il compito di chiudere. Ascher mette alla fine del documentario la testimonianza di Joshua Cooke che, affetto di problemi mentali, iniziò a riconoscere la propria vita come fosse una reale simulazione ordita da una matrice e, vestito à la Neo, uccise i propri genitori con un fucile nel 2003 (ora sconta 40 anni in un manicomio criminale).
Ma a parte il linguaggio o il messaggio, forse il vero nodo sottostante il progetto è questo senso di sorveglianza che una volta entrato nelle teste di chi parla non riesce più ad uscire. Non è tanto il pensiero di vivere in un continuo Truman Show a colpire lo spettatore quanto il fatto di essere costantemente “guardati”. È ovvio che per ora la tecnologia insegua la realtà, ma per farlo sicuramente la spia, cioè ci spia, e recupera tutti i dati possibili per poter in futuro eventualmente sostituirla.
Si pensi per esempio all’esperimento splendidamente riuscito di Amazon Go a Seattle, in cui Amazon ha creato un supermercato (il primo di ventisette) in cui si entra, si prende qualcosa, e si esce. Questo è possibile grazie al fatto che l’area è totalmente coperta da videocamere e ogni oggetto ha un sensore che parla al nostro smartphone il quale addebita la spesa sul nostro conto. Il lavoro certosino fatto dall’impiegato di Amazon permette alla AI di riconoscere ogni tipo di eventualità sghemba: tenere traccia di tutti i prodotti, imputare i giusti prezzi, mappare frutta e ortaggi sfusi nelle mani dei clienti, riconoscere i clienti dietro barbe, cappelli o sciarpe. Questo porta ad un importante salto verso una realtà in cui siamo sia sempre più comodi che sempre più schedati.
Nel film è “bello” vedere la rappresentazione di una civiltà finta che, secondo l’opinione di un intervistato, si metterebbe in pausa ogni qualvolta che noi non la vedessimo. Partendo dal presupposto che colui che parla non ci mette la faccia, perché appositamente nascosta da un avatar, questa “sensazione”, che nella sua bizzarria resta un po’ sullo schermo (forse anche a causa della volontà del regista di non farcela sentire, ma solo razionalizzare) dà un’idea di controllo dall’alto del tipo di Amazon Go.
Non siamo fantocci vuoti che smettono di vivere quando non veniamo visti da altri umani, ma sono le videocamere che possono benissimo concepirci come tali. Il nodo quindi non è tanto la divisione tra reale e irreale, ma l’interpretazione del reale da parte delle macchine, per ora ancora aiutata da noi umani (come fossimo i nostri primi ed inconsapevoli carnefici) ma presto, come dice Musk, in grado di fare a meno del nostro aiuto e componendo dati al fine di diventare indipendenti.
Dubitare della realtà è da sempre fonte di pensiero nel mondo occidentale, e infatti puntuale il film mostra estratti dal mito della caverna di Platone, nella versione narrata da Orson Welles. Nel ‘700 la scuola empirista inglese (si pensi a Hume) arrivò a quel famoso scetticismo che portava a considerare la conoscenza come solo probabile, in cui l’esistenza del mondo esterno veniva declassata ad abitudine e credenza. Gioco facile quindi per il cinema giocare sull’ambiguità del dato reale laddove esso può essere simulato. Ma tale gioco diventa ogni giorno ancora più ambiguo grazie alla capacità di ricostruzione esatta del reale (come afferma Musk).
Quindi la domanda non è più se il reale è reale, piuttosto se noi vogliamo sopravvivere come umani o diventare dati per una realtà ricostruita. Se, come tutto il film ci dice, la realtà se ne frega delle nostre interpretazioni, se la tecnologia ci ha già totalmente superato, allora la decifrazione che facciamo per almeno stare dietro ai suoi sviluppi deve necessariamente chiedersi se siamo capaci di sopravvivere. Che poi è il nodo di Matrix. Il problema è che per farlo abbiamo bisogno di dati, di informazioni, non più di bellezza e contemplazione. Per sopravvivere dobbiamo sapere cosa pensa la macchina. Per poi sabotarla.