Zinzindurrunkarratz, di Oskar Alegria

Il terzo lungometraggio di Oskar Alegria è una poesia visiva commovente, tenera ed emozionante su un percorso perduto e rimesso insieme. Vincitore della 48° edizione del Laceno d’Oro

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In Zinzindurrunkarratz, Oskar Alegria recupera la vecchia videocamera 8mm di suo padre e i filmati impressi. Decide di usarla per rinverdire il racconto di alcune tradizioni passate. Ma scopre di non poter registrare più l’audio, a causa del progresso tecnologico che ha reso obsolete le videocassette 8mm. Da qui la prima “spaccatura” che rende il film ciò che è: quella tra audio e video. Oskar Alegria decide infatti di non registrare l’audio perduto e di non ricostruirlo, lascia il suo film muto e ci aggiunge una voice over muta fatta solo di sottotitoli. E’ la sua non-voce, che racconta il film da sogno che sta realizzando.

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La seconda spaccatura riguarda il passato e il presente. Perché Zinzindurrunkarratz racconta nel presente tradizioni antiche, gesta perdute, e lo fa attraverso la lente – letterale – del passato, utilizzando la vecchia 8mm di suo padre. È in qualche modo una riflessione sul cinema. La meravigliosa immagine dei video muti casalinghi proiettati su parete mentre vengono nuovamente registrati dalla stessa camera ne è la manifestazione più concreta e potente. “A movie that is the screen itself”, dice la non-voice over. È un discorso sul cinema anche come mezzo, perché il film agisce con un’ancestrale semplicità che riporta ai primi momenti dell’arte cinematografica, fatta di strumenti semplici e tecniche basilari. Un ritorno alla potenza del significato più che del significante.

Queste due spaccature che identificano il film, Oskar Alegria non le nasconde, anzi le amplifica. Come lui stesso dice, agisce come i giapponesi quando riparano un piatto spaccato con l’oro, in modo da rendere preziose le fessure senza sotterrarle. Forse queste spaccature, questi spazi silenziosi e vuoti sono la parte più significativa di Zinzindurrunkarratz. Il film è capace di prendere per mano lo spettatore e portarlo con sé in viaggio. E non è un viaggio solo d’immagini ma anche, paradossalmente, di suoni. Quei suoni perduti che il narratore racconta attraverso le parole scritte – lo stesso titolo è un insieme di tre onomatopeiche – a un certo lo spettatore li produrrà nella sua testa tanto da sentirli davvero.

Se è vero che ogni film è un viaggio, questo film lo è in due sensi, perché è esso stesso una riflessione su un percorso perduto e rimesso insieme attraverso dei frammenti di immagini e suoni passati. Una poesia visiva commovente, tenera ed emozionante in cui ognuno di noi viene trascinato con dolcezza.

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