Il cinema e la cattiva televisione: "Sbirri", di Roberto Burchielli

Sbirri

Lo slancio performativo, mirato a cancellare l’idea della messinscena, finisce soltanto per ribadire la stessa, dando forma a un fluire confuso di immagini, mentre su tutto aleggia un moralismo di fondo e un’isteria dei toni, figlia della peggiore televisione urlata

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SbirriUn tempo probabilmente avremmo usato espressioni come “ibrido tra la fiction e il documentario”, ma si rischia di restare indietro di fronte a un progredire dei linguaggi che ha ormai abbattuto le definizioni standard: già da tempo, infatti, il documentario ha fatto proprie alcune strategie narrative tipiche della fiction, aprendosi ai grandi successi di pubblico (pensiamo alle opere di Michael Moore), mentre il cinema tradizionale sperimenta commistioni stilistiche attraverso quello che, con ovvio riferimento televisivo, potremmo convenzionalmente definire “Real Cinema” (vedere i recenti REC e Cloverfield, solo per citare due titoli).
Il problema, quindi, non è semplicemente quello storicistico di chi deve trovare la casella in cui inserire questo Sbirri. Al contrario, il punto è chiedersi cosa questo film aggiunga rispetto a questo modo di raccontare, quale sia il suo senso più profondo. Come dichiarato dagli autori, l’intento del film è unire un “messaggio” di denuncia a una forte sperimentazione linguistica, attraverso l’immersione dell’attore in una realtà fatta di consumo dissennato di sostanze stupefacenti da parte di un’utenza variegata, che non comprende più la casta dei “ricchi”, ma investe ogni gradino della scala sociale. La mancanza dell’intermediazione fornita dalla sceneggiatura (gli attori hanno improvvisato sul set, accompagnandosi a veri poliziotti durante alcune retate e tutto è stato poi organizzato in montaggio), vorrebbe di per sé amplificare l’ansia di realismo di chi intende scuotere il suo pubblico mostrandogli quello che accade sotto gli occhi di tutti e nessuno ha il coraggio di denunciare.
Poco prima si citava però un riferimento televisivo: anche questo è un elemento importante, non bisogna infatti credere che tutto si giochi nel perimetro dello schermo da sala, al contrario il forte impatto che hanno avuto sull’immaginario corrente i format basati sulla Reality TV è imprescindibile per una più corretta contestualizzazione del fenomeno e del film in questione. Perché Sbirri è un film che tanto più si avvicina a quel filone cinematografico che pure vorrebbe emulare, tanto più finisce per rivendicare la sua natura di figlio della peggiore televisione. E’ una questione ancora una volta di contestualizzazione: lo slancio performativo nel documentario e nel Real Cinema è naturalmente proteso a trasmettere la percezione di un abbattimento dello spazio fra significante e significato; ovvero: il mezzo di riproduzione cinematografica denuncia la propria presenza per annullare l’idea della messinscena tradizionale, ma, una volta esaurita questa funzione, diventa elemento di narrazione invisibile. Con Sbirri questo non accade: lo slancio performativo volto a cancellare l’idea della messinscena finisce soltanto per ribadire continuamente la stessa. Burchielli, infatti, eccede in giochetti estetici, soffocando la materia che tratta e dando forma a un fluire confuso di immagini, e fa affondare tutto in un pericoloso e facile moralismo che si contenta dell’ovvio: il film pertanto non si preoccupa di ricostruire davvero i percorsi della rete dello spaccio, ma soltanto di dare spazio a isolati esempi, comprensibili facilmente da un pubblico abituato al sensazionalismo e bisognoso di casi umani su cui riversare il proprio sdegno. Emerge in questo modo l’assoluta malafede e volgarità dell’operazione, la stessa che porta l’indagine a essere ibridata con il puntuale e insopportabile resoconto delle continue isterie del protagonista in cerca dell’assassino del figlio, che si legano a doppio filo con l’onnipresente comunicazione urlata dei talk show e con quella dogmatica centralità della famiglia tanto cara ai “salotti” del piccolo schermo. Non a caso proprio nella nascita di un altro figlio l’uomo riesce infine a ritrovare se stesso e il consenso dello spettatore, oltre che la quadratura di un cerchio che non si è realmente chiuso.
 
Regia: Roberto Burchielli
Interpreti: Raoul Bova, Luca Angeletti, Simonetta Solder, Alessandro Sperduti
Distribuzione: Medusa
Durata: 100’
Origine: Italia, 2009

 

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    Un commento

    • le guardie non sono animate da un giudizio morale sulle sostanze (anche perche sono tante quelle che ne fanno uso specie di coca ,cioe sono anchesse vittime di un sistema di alte prestazioni orari impossibili,rapporti umani ridotti all osso e all opportunismo e strumentalizzazionie. cio' che li anima e un potere di "acchiappare" quasi una malattia ,la caccia al tesoro..una volta ricordo che le guardie avevano piu etica ,cercavano solo i grossi fornitori e o mafiosi,oggi va tutto bene anche l,ultimo del carro per fare senzazione.Sono figlie di questa cultura anche le guardie di oggi..Soluzioni .solo l'antiproibizionismo.la prevenzione ,questi film servono solo a imbigottire di piu e sotterrare il vero problema