CANNES 64 – “Ichimei (Hara-kiri: Death of a Samurai)”, di Miike Takashi (Concorso)

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Questo film di sublime bellezza, che esprime tutta la sua potenza nell’assoluta concentrazione figurativa, trova l’unica nota dissonante proprio nella scelta del 3D, davvero incredibile per le dinamiche puramente interiori che racconta. Ed è qui che sta la provocazione ed emerge tutta la consapevolezza ‘critica’ del cinema di Miike, che chiama in causa il 3D proprio là dove meno te lo aspetti. Come a dire che questa terza dimensione o serve sempre o non serve mai. Perché è vacante come ogni codice, se non è diretta al cuore e all’anima
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ichimeiLa velocità di Miike brucia il cinema, visto, amato, ripensato e rifatto. Due remake a stretto giro. Solo qualche mese fa 13 Assassins, presentato in concorso a Venezia, da un film di Eichi Kudo del 1963. E ora un altro grande film di samurai: Ichimei (Hara-kiri: Death of a Samurai) remake di Harakiri, capolavoro di Masaki Kobayashi (premio speciale della giuria proprio qui a Cannes, sempre nel 1963). Ed è la conferma di come Miike stia lanciando un’ultima sfida, definitiva e complessa: alla storia e alla concezione del mondo sottesa all’etica samurai (e quindi a gran parte della cultura giapponese), al genere e al cinema tutto, alla sua storia e al suo futuro. Con il consueto atteggiamento tra fedeltà e trasgressione, Ichimei è un’altra decodificazione, un’interpretazione e uno scardinamento dei codici, di quanto d’illeggibile e inumano vi è in essi, perché costituzionalmente e istituzionalmente votati alla compressione della libertà e all’indifferenza dei sentimenti. Codici di samurai, codici di genere, l’oltraggio all’inviolato. Di fronte al rigore della via dell’onore, si afferma un’altra etica, in cui la vocazione del samurai trova una vena più profonda e umana, un’idea più alta di pietà e giustizia che deve governare l’agire degli Uomini. La problematica morale che agitava il film di Kobayashi, in fondo, è la stessa che attraversa, sotto pelle, il cinema di Miike, da Agitator su su fino a 13 Assassins, film giocato proprio sul contrasto fondamentale tra l’umanità e il dovere. Conflitto non di poco conto, soprattutto per una società come quella giapponese, fondata sull’obbligo e la superiorità del sistema sull’individuo. Ma per Miike la politica è anche affar di generi e, ancora una volta, piega il jidai geki verso qualcos’altro, trasformando la tensione morale dell’epica nell’accesa vibrazione sentimentale di un
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ichimeimelodramma d’altri tempi. Racconta il grumo di miserie e dolore che attanaglia la famiglia di Hanshiro, ma ne decreta, al tempo stesso, l’assoluta superiorità umana, come se il seppuku, il suicidio cui si votano tutti i suoi membri, fosse un’unica sacra crocifissione per mano dell’indifferenza del mondo. E a rafforzare quest’azzardato confronto, viene in mente anche il ringraziamento, quasi da preghiera, dei due bambini di fronte al misero pasto che il padre riesce, a fatica, a donar loro. Eppure, stavolta, la carica iconoclasta ed eretica del cinema di Miike sembra non arrivare al livello dello stile, mai così splendido e controllato, nel suo gioco composto di campi e controcampi, nella fluida pacatezza dei carrelli, nel movimento quasi rituale dei corpi e la calibrata disposizione dei personaggi negli spazi. Ecco l’altro rigore, quello della forma, che non viene meno neanche nei momenti più drammatici o nei pochissimi combattimenti, ormai talmente stilizzati, da diventare pure cerimonie, dimostrazioni. La vendetta di Hanshiro non viola la carne, che la sua spada di bambù non riesce ad attraversare, ma arriva allo spirito, facendo vacillare la granitica sicurezza dei suoi nemici, tutto il rigore del codice e i suoi simboli vuoti (il codino, l’armatura). Ma questo film  di sublime bellezza, che esprime tutta la sua potenza proprio nell’assoluta concentrazione figurativa, totalmente privo delle impennate ironiche e dissacranti che sono il marchio (e molto spesso il limite) di Miike, trova l’unica nota dissonante proprio nella scelta del 3D, davvero incredibile per le dinamiche puramente interiori che racconta. Ed è qui che sta la provocazione ed emerge tutta la consapevolezza critica del cinema di Miike, che chiama in causa il 3D proprio là dove meno te lo aspetti. Come a dire che questa terza dimensione o serve sempre o non serve mai. Perché è astratta come ogni codice, se non è diretta al cuore e all’anima.
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