L’avventura, di Michelangelo Antonioni

Il primo capitolo della trilogia dell’incomunicabilità che ha avuto una lavorazione tormentata ma che rappresenta oggi uno dei passaggi fondamentali dell’opera del cineasta.

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È l’inquadratura finale, con la sua purezza geometrica che ricorda le linee armoniche della pittura di Mondrian – artista che ritornerà più tardi in Professione: reporter – ad aprire una finestra sul futuro cinema di Antonioni affrancando la sua poetica dalla necessità della narrazione di cui non ha mai sentito davvero il bisogno. Il cinema di Antonioni comincia a farsi, progressivamente, meditativo più che narrativo, solitario e solipsistico più che inserito nella grande e fluviale materia della comunicazione di massa. Con Antonioni il cinema si fa élite del pensiero attraverso la rarefazione di ogni orpello diegetico e, soprattutto, misura e testimone di una incessante modernità avendo assunto il difficile compito di riflettere sulla rete ostativa alla attuabilità dei sentimenti e quindi sulla qualità della nostra vita interiore. Argomenti sempre presenti che trovano oggi nuove strade e sviluppi, che sicuramente il regista ferrarese avrebbe amato. Nella complessità virtuale che viviamo questi sviluppi trovano, ad esempio, un possibile approdo in film come Her che segna, volente o nolente – nella interpretazione di quel cinema totalmente anarchico, ma così totalmente controllato di Spike Jonze – una tappa nient’affatto trascurabile nella lunga e forse appena iniziata, riflessione su un’umanità mutata e destinata a successive mutazioni che impressiona e affascina.

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L’avventura è stata per Antonioni un’esperienza da ricordare per le difficoltà realizzative che ha avuto il film, la cui interruzione dei finanziamenti ha costretto al fermo la troupe sullo scoglio eoliano e inospitale di Lisca bianca dove il regista sarebbe tornato parecchi anni dopo per girare un cortometraggio che avrebbe preso il nome di Inserto girato a Lisca bianca. Furono giorni difficili, come avrebbe ricordato lo stesso regista anni dopo, scioperi della troupe, tempeste e traversate e maestranze senza cibo, coperte e soldi. La situazione, nella sua reale originalità, ricorda una parte del plot del wendersiano Lo stato delle cose nelle cui immagini riecheggiano quelle di Antonioni. Ma lo straordinario è che L’avventura sembra riportare alla memoria il film dell’autore tedesco nella sua essenzialità figurativa e nella stessa precisa capacità di trasferire sullo schermo quell’immobilità che è prerogativa dei personaggi di Antonioni e che in quel film del 1982 diventa invece condizione particolare, ma determinante e fondamento per lo sviluppo del racconto.

Con L’avventur , Premio speciale della giuria a Cannes, Michelangelo Antonioni resta legato, ma con un tutto proprio e autorevole stile, ad un cinema narrativo, solo parzialmente narrativo, in verità, soprattutto nella seconda parte la dove gli eventi, i colpi di scena, sembrano ridimensionare l’impianto originario del film che vive di una rarefazione del racconto affidando, invece, nella prima parte, all’evocatività e alla suggestione dello scenario, l’anima più vera del film, quella che in fondo ne costituisce il nucleo ideativo e il suo fondamento teorico.

La trilogia del cinema di Antonioni che fu definita della incomunicabilità, completata con La notte e chiusa con L’eclisse, prende avvio con questo film in cui la scomparsa di una ragazza (Anna) interpretata da Lea Massari, durante una crociera tra le isole Eolie, induce i suoi amici tra cui Claudia, una versatile Monica Vitti, Raimondo, un Lelio Luttazzi prestato al cinema d’autore e il suo fidanzato Sandro, un affascinante e spregiudicato Gabriele Ferzetti, a cercarla inutilmente. Le ricerche proseguiranno in Sicilia, tra Taormina e Noto e se il mistero non si scioglie altri nodi troveranno soluzione o, come accade, si complicheranno ancora di più. Ma su tutto domina una precarietà dei sentimenti, c’è un’incertezza che sembra sottrarre qualsiasi certezza ad ogni gesto che i protagonisti compiono nel farsi della storia.

È proprio il paesaggio scabro e lunare di Lisca bianca ad completare il progetto artistico del regista. Il paesaggio per Antonioni non è mai indifferente, meno che mai in quest’opera nella quale il riflesso originario di un raccordo tra sentimenti e ambiente si fa forte, evidente, indispensabile a sostituire ogni didascalica ricerca di significato che è insito dentro le immagini. Le immagini di Antonioni non ci nascondono mai nulla, diceva Robbe-Grillet.L’aridità della natura sembra fondersi con la qualità delle relazioni umane, i rapporti spaziali del cinema del regista ferrarese costituiscono il senso di una ricerca visiva e qui si vedano le “scoperte” del barocco siciliano nello scenario teatrale di Noto che nell’occhio di Antonioni vede accrescere la sua già naturale razionalità. Cinema d’architetture visive e sentimentali che guarda alla centralità dei personaggi femminili. Non vi è dubbio che in L’avventura sia Claudia il personaggio centrale del film, tutto ruota attorno alle sue scoperte ed a questo proposito che il regista ebbe a dire Do sempre molta importanza ai personaggi femminili, poichè credo di conoscere meglio le donne degli uomini. Penso che attarverso la psicologia delle donne si possa meglio filtrare la realtà. Esse sono più istintive, più sincere. 

Michelangelo Antonioni è stato a suo modo un personaggio singolare e solitario nel panorama del cinema italiano che, pur così frastagliato, non ha mai trovato un autore che ne raccogliesse l’eredità, forse troppo difficile e gravosa. Il suo è un cinema sempre profondamente meditato che nasce da una osservazione paziente di una realtà progressiva che non si definisce, una moderna instabilità dei sentimenti, ad esempio, sulla quale, per sua stessa dichiarazione, L’avventura è fondato: Guardando gli uomini e le donne intorno a me ho constatato l’instabilità e le fragilità dei loro rapporti. Oggi viviamo in un periodo di estrema instabilità. Instabilità politica, morale e sociale, fisica addirittura, dove la fisica diventa addirittura metafisica. Il mondo è instabile dentro e fuori di noi. Questa instabilità influenza la nostra psicologia, i nostri sentimenti… il mio film non è una denuncia o una predica, è un racconto per immagini, dove io mi auguro sia possibile cogliere il modo in cui si sbagliano i sentimenti.

L’idea di instabilità, di precarietà esistenziale è un pregio fondante del moderno concetto artistico sulle cui evoluzioni prende corpo la concezione dell’opera aperta. Michelangelo Antonioni, come osserva Alain Robbe-Grillet è un grande regista “moderno”, forse il più grande. Nei film di Antonioni – aggiunge il regista e critico francese – c’è un’apertura, un’apertura progressiva, come se il senso fosse impossibile da fissare. E questo è uno degli elementi cruciali della “Modernità”: “l’apertura del senso” contrapposta alla “chiusura del senso”.  

Quella ultima immagine così instabile apre mondi infiniti e consegna i personaggi di Antonioni al nostro presente e all’oscuro futuro.

 

Regia: Michelangelo Antonioni
Interpreti: Monica Vitti, Gabriele Ferzetti, Lea Massari, Dominique Blanchar, Renzo Ricci, Lelio Luttazzi
Durata: 140′
Origine: Italia/Francia 1960
Genere: drammatico

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.7

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
4.83 (6 voti)
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