14 FESTIVAL DEL CINEMA EUROPEO – Fernando di Leo, dieci anni dopo

fernando di leo
La manifestazione salentina ha proposto un ricco programma di appuntamenti sulla figura del celebre padre del noir italiano: un modo per omaggiare un pugliese illustre, ma anche per tornare a confrontarsi con la sua opera e scoprire i legami più interessanti e meno esplorati fra le varie parti di una produzione solo apparentemente uniforme

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Fernando Di LeoSono già trascorsi dieci anni dalla scomparsa di Fernando Di Leo: l'autore pugliese ci ha lasciati quando la sua rivalutazione era ancora in corso, ha potuto goderne gli effetti e le prime interessanti iniziative, dal restauro dei film per le edizioni home video ai documentari, a qualche timida ospitata televisiva (qualcuno ricorda il programma Target?). Ma la sensazione è che, come altri prima di lui, se ne sia andato troppo presto e che ci fosse ancora del lavoro da fare. Quindi l'idea di dedicargli uno spazio nella ricca programmazione del Festival del Cinema Europeo 2013 non è stato soltanto un obbligo dovuto alla (pur triste) ricorrenza, ma anche un modo per tornare a ragionare sull'opera dell'autore, peraltro in quella stessa terra di Puglia che gli aveva dato i natali e che ad oggi non sembra ancora essere troppo consapevole del suo valore.

 

In questo senso, accanto alla riproposizione su grande schermo di alcune tra le più celebri opere di Di Leo (12 lungometraggi, realizzati tra il 1969 e il 1980), l'omaggio ha avuto una più ampia articolazione, passata per la proiezione di due cortometraggi di inizio carriera e del documentario Fernando Di Leo: Un pugliese a Roma, di Deborah Farina, tentativo di tracciare un ritratto dell'uomo, prima ancora che dell'artista, attraverso le parole di chi lo aveva conosciuto. E poi non va dimenticato il convegno con alcuni esegeti dell'opera dileiana, dal curatore dell'omaggio Domenico Monetti (della Cineteca Nazionale) al biografo Davide Pulici, fino al critico “stracult” Marco Giusti (peraltro autore di alcune fra le prime interviste televisive dedicate al regista).

 

Milano Calibro 9

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Quello che ne è venuto fuori è un ritratto sfaccettato, capace di interessare anche il frequentatore navigato del corpus d'opera di Di Leo: che fu innanzitutto autore di noir, com'è noto anche ai meno avvezzi. In questo senso Milano Calibro 9 svetta ancora oggi come l'autentica punta di diamante della sua produzione, più che altro in virtù della capacità di tarare il tono del racconto attraverso un uso espressivo delle location. La Milano di Ugo Piazza è un luogo umbratile, uggioso, non tanto per convenzioni tipiche del genere, quanto per la sua capacità di essere crocevia di un'umanità incanaglita e disillusa, dove gli idealismi si scontrano di fronte al pragmatismo di una malavita che trova la sua sponda in una polizia acquiescente rispetto allo status quo. Di Leo lavora su due fronti, da un lato c'è la tendenza alla tipizzazione e a un regionalismo marcato negli accenti dei personaggi: sebbene in altre opere questa prassi abbia finito per sforare in un certo macchiettismo un po' degradante (come a volerci ricordare a tutti i costi che di genere e basta si tratta), nel caso specifico si ha la sensazione di un tessuto sociale complesso, dove il clima plumbeo di una Milano non ancora da bere (e per questo particolarmente pulsante e viva, nonostante l'immobilità un po' teatrale dei paesaggi e degli arredi interni) tiene insieme un microcosmo in cui si riflettono i drammi della società tutta.

 

D'altronde – ed è il secondo fronte su cui lavora il regista – non c'è solo la vicenda di Ugo Piazza e dei soldi rubati a tenere banco, ma anche il confronto fra la sete di giustizia del vice commissario Mercuri (un grande Luigi Pistilli) e l'insofferenza dei suoi superiori, che credono nel crimine come fattore quasi “genetico” (delinquenti si nasce). Da bravo meridionale, Di Leo capiva bene certi meccanismi di superiorità e la spinta a voler sedare le voci critiche, tanto da affidare poi il ruolo più intenso al pittoresco Mario Adorf, apparentemente (ser)vile e violento, ma in realtà unico capace di preservare un certo senso dell'onore, come dimostra l'indimenticabile finale. Ne viene fuori un film spesso urlato/sovraeccitato, che nella cacofonia dei suoni (e nell'avvolgente colonna sonora di Luis Bacalov) crea un efficacissimo contrappunto espressivo alla fissità degli ambienti: una politica del doppio passo e degli opposti contrapposti che è la vera costante dell'opera di Di Leo.

 

Un cuore per odiarviL'altro ramo d'azione del corpus d'opera del regista che qui più interessa sottolineare è non a caso quello relativo alla sessualità e ai meccanismi di liberazione dell'eros: anche in questo caso tornano in gioco gli scontri fra diverse concezioni del mondo, tra “rivoluzionari” e agenti dello status quo. Sebbene considerata “minore”, la produzione “al femminile” di Di Leo si staglia pertanto come una delle più interessanti. Lo dimostra il cortometraggio Un cuore per odiarvi (scritto dall'autore e diretto da Enzo Dell'Aquila) che nel 1962 affronta il delicatissimo tema dell'aborto raccontando le vicende di una ragazza (Graziella Polesinanti, oggi celebre doppiatrice) in attesa di un figlio da un compagno che non perde tempo a scaricarla, mentre la sua famiglia la guarda con vergogna e cerca quasi di ignorare il fatto. Ci sono già tutti i temi di Brucia ragazzo brucia o Avere vent'anni, in cui Di Leo illustra il conflitto violento fra il desiderio femminile di vivere la propria sessualità in modo attivo e un mondo maschile indifferente, quando non addirittura repressivo fino alle estreme conseguenze, tanto da costringere le protagoniste alla morte.

 

Alla luce di queste istanze, peraltro, anche gli stessi noir finiscono per assumere sfaccettature nuove, non necessariamente aderenti alle dinamiche più “facili” dei generi: l'omertà dei malavitosi, infatti, si riflette in quella delle “bestie stupide e feroci conosciute come benpensanti” (parole del regista), mentre persino ruoli archetipici come quello della dark-lady aggiungono qualcosa al discorso d'autore. La Barbara Bouchet del già citato Milano Calibro 9, quindi, forse non è soltanto un'abile traditrice, ma anche e soprattutto un personaggio che applica questo concetto di indipendenza e di conflitto tra i sessi alle dinamiche noir del profitto e dell'homo homini lupus. E' sempre la poetica del doppio passo e degli opposti che si contrappongono, insomma, modulata all'interno di un meccanismo di riferimenti molto più ricco di quanto non sembri e che denota la grande modernità di pensiero dell'autore, in una produzione spesso erroneamente considerata troppo uniforme. Sarebbe stato bello parlarne con lo stesso Di Leo, giusto per ribadire quanto ancora il confronto con la sua opera sia interessante, attuale e sempre in divenire…

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