Kōji Yakusho. Ritratto di un attore (stra)ordinario

Il premio a Cannes non è solo il coronamento della carriera dell’attore: è un tributo alla sua arte, al modo in cui ha ridefinito al cinema le crisi odierne del giapponese comune. Il nostro profilo

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Se dovessimo indicare una sola immagine per riassumere gli ultimi 30 anni di storia del cinema giapponese, la scelta non potrebbe che ricadere sul volto di Kōji Yakusho. Una faccia sfuggente ed enigmatica, quella dell’interprete nipponico, all’apparenza così umana e sfacciatamente neutra, capace ormai da decadi di torreggiare su un’intera industria mediale, per come ne ha segnato simultaneamente sia l’orizzonte indipendente che la dimensione più commerciale. Eppure ad uno sguardo fugace, l’attore originario di Nagasaki non sembra possedere (almeno in superficie) quel carisma trainante che si richiederebbe alla più grande star del suo tempo, soprattutto in un paese – e quindi in un sistema culturale – dove i retaggi linguistici del teatro sembrerebbero obbligare l’artista scenico a canalizzare nella fisicità tutta la sua potenzialità espressiva.

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Se ci pensiamo, infatti, ogni epoca del cinema giapponese può essere ricondotta ad un volto, ad una personalità talmente totalizzante nel suo magnetismo da catalizzare su di sé tutta l’attenzione di chi dall’esterno – quindi critici, spettatori, operatori di mercato – osserva, commenta e forma di conseguenza l’immaginario. Nel periodo del cinema muto – anche se muto il cinema nipponico non è mai realmente stato, data la presenza di benshi (narratori) che raccontavano l’azione in sala – tutti i sentimenti del pubblico convergevano sull’eroismo tradizionale di Tsumasaburō Bandō, in grado com’era di intrattenere ed emozionare gli amanti dei chanbara (film sui samurai) grazie alle sue performance fatte di fisico, presenza scenica, e agilità corporea. Poi – almeno per rimanere in tema maschile – è arrivato il periodo dei grandi eclettici, da Yūjirō Ishihara a Masayuki Mori, passando per Toshirō Mifune e Ken Takakura fino a Tatsuya Nakadai, capaci di transitare senza soluzione di continuità dal teatro al cinema commerciale, dalla televisione alle produzioni più indipendenti e radicali, cristallizzando nell’immaginario collettivo uno strapotere divistico che tanto aveva a che fare con la precisione con cui riflettevano le necessità del pubblico corrente. E in questo senso la traiettoria di Kōji Yakusho si pone in continuità con i percorsi dei suoi illustri predecessori, rappresentandone al tempo stesso un immediato punto di rottura.

Perché, in realtà, pochi attori come Kōji Yakusho riescono ad incarnare l’essenza della recitazione nipponica, e in senso lato del cinema giapponese tout cour. Quando c’è bisogno di recitare in sottrazione, lo vediamo sparire nel personaggio, che sia un salaryman in piena crisi (Shall We Dance?) o un uomo in fuga da sé stesso (Eureka), oppure lo osserviamo sfocare confini e aspettative precostituite, celando sotto le figure di cittadini mondani e banalmente omologati una rabbia talmente esplosiva da bucare lo schermo per quanto è intensa, magnetica, abbagliante. Questo accade in particolare quando recita per Kiyoshi Kurosawa, forse il regista che più di tutti è stato in grado di indagare le pulsioni recondite del suo animo, e spingerlo oltre i limiti della sua tavolozza espressiva. In opere nevralgiche come Cure (1997), License To Live (1998), Charisma (1999) o Retribution si concretizza di fatto l’evoluzione di un artista che non ha eguali in patria, e non solo per una mera questione di talento. Perché nessuno come lui riesce ad essere camaleontico e al tempo stesso così personale nel materializzare sullo schermo la figura del giapponese comune, privo all’apparenza di tratti distintivi e immerso in un clima di collettivismo che ne sopprime l’individualità, insieme alla capacità di sentirsi parte di una società che ne rifiuta la disconnessione sociale.

Ma come tutti gli artisti che segnano un’epoca e arrivano di conseguenza ad intercettare un sentimento popolare, Kōji Yakusho sintetizza anche un altro lato dell’industria culturale giapponese, quella che dai tempi dei primi pinku eiga (film erotici) degli anni ’60 articola l’erotismo come veicolo simbolico delle crisi interne alla società. A cavallo tra i due millenni, dopo aver già prestato il volto all’iconico “seduttore dal vestito bianco” di Tampopo (1986), interpreta una sequela di personaggi propriamente lascivi, lontani dalle pressioni del conformismo, a cui resta solo la pulsione sessuale, e l’eccitazione che ne deriva, per tracciare il proprio posto nel mondo. Ed è in questo preciso contesto che l’attore passa dall’essere un formidabile interprete a divo, entrando definitivamente nel novero delle star immortali del firmamento cinematografico nipponico.

Se Itami o Harada (Kamikaze Taxi, Bounce Ko Gals) ne avevano plasmato in precedenza il carattere artistico, quasi avessero operato in funzione mitopoietica, è il successo, forse inaspettato, di opere sensuali come Lost Paradise (1997), L’anguilla (Palma d’Oro nel ’97) e Acqua tiepida sotto un ponte rosso che cambia completamente il paradigma in merito al modo in cui viene percepito l’attore. La prima delle tre diventa un caso nazionale, posizionandosi al botteghino dietro solo l’inarrivabile Principessa Mononoke, mentre le altre due, dirette dal veterano della New Wave nipponica Shōhei Imamura, lo consacrano anche nei circoli festivalieri, configurando immediatamente Kōji Yakusho come sintesi di un cinema che cercava faticosamente di (ri)trovare la sua strada nel pieno della recessione economica. Da questa prospettiva, le figure di uomini tragicamente alienati dalla società, che arrivano letteralmente a consumarsi d’amore pur di vivere, fino all’ultimo istante, nelle pieghe di un sentimento travolgente, rendono Yakusho il divo per eccellenza, per come incorpora al tramonto degli anni ’90 tutte le fantasie (erotiche, affettive, di libertà) degli spettatori/cittadini. Quegli zigomi scavati e appena pronunciati, contrappuntati da occhi vitrei eppure così trasparenti si fanno subito specchio di un’intera popolazione, ponendosi come veicolo ideale attraverso cui scatenare le pulsioni più intime e latenti, in un contesto di profonda crisi sistemica, dove qualsiasi tipo di sicurezza era ormai obliterata, sulla scia di una bolla finanziaria, che implodendo all’inizio della decade, aveva portato via con sé ogni certezza, sogno o promessa.

La storia di Kōji Yakusho, così come la connessione privilegiata con il pubblico, non si è naturalmente fermata alle soglie del nuovo millennio. Anzi, più passava il tempo, più cresceva la capillarità con cui l’attore occupava tutti gli spazi del cinema nipponico, sovrapponendo la propria immagine anche agli orizzonti di genere più tradizionali. Non è un caso, infatti, che l’irrefrenabile Takashi Miike lo scelga per i gloriosi remake di 13 Assassini e Hara-kiri: Death of a Samurai, quasi ad omaggiare le radici artistiche della sua star, dal momento che lo stesso Yakusho aveva debuttato nell’83 proprio in uno sceneggiato televisivo a tema “cappa e spada” sui leggendari daimyō Oda Nobunaga e Tokugawa Ieyasu. Ma l’attitudine dell’interprete a costruire, con le sue performance, un caleidoscopio di volti e personalità teso a restituire un’immagine sfaccettata e mai statica del cittadino giapponese comune, lo porta ad incarnare figure dalla natura controversa, situate al confine tra il rispetto della moralità e la sua deliberata trascendenza: in opere come The World of Kanako (2014) e The Blood of Wolves (2018) dà vita a detective iper-violenti, umbratili, che arrivano ad annullare la distanza tra chi resiste alla legge e chi è chiamato a servirla, mettendo nuovamente in discussione quell’intero sistema di valori su cui, insieme a Kiyoshi Kurosawa, aveva già costruito una frammentazione del “nihonjinron” odierno, cioè di cosa vuol dire essere giapponesi nell’era contemporanea, in seguito alle trasformazioni/costrizioni di cui i cittadini sono stati testimoni nel passaggio dai trionfi economici degli anni ’80 alle derive perturbanti della cosiddetta Lost Decade.

In questo senso, il premio che la giuria di Cannes gli ha assegnato per Perfect Days, appare estremamente simbolico. Non solo perché gli è stato tributato in concomitanza con i suoi 40 anni di carriera, ma in particolare per come sembra omaggiare quelle ostinazioni che spingono da sempre Kōji Yakusho a riconfigurare le soglie dello shimin (cittadino comune) senza mai offrirne un ritratto univoco o immutabile. Per estremo, potremmo addirittura interpretarlo come un riconoscimento all’intera storia del divismo giapponese. Perché Yakusho è sì un attore formidabile nella sua singolarità espressiva, ma soprattutto un’artista capace di sintetizzare tutte le caratteristiche che contraddistinguono le grandi stelle del passato: in lui c’è un po’ di Mifune per come guizza in un istante verso i registri enfatici della lingua giapponese, ma anche un po’ di Nakadai per come usa la voce – specialmente nei film animati di Hosoda – per restituire una carica solenne alle crisi del quotidiano. È questo, forse, il segreto che si cela dietro quel volto innocuo e pulito. L’essenza di un attore “trasparente”, che si offre allo spettatore senza barriere né distanze, abbattendo ogni ostacolo che ci separa dallo schermo. E dai richiami della sua indimenticabile presenza. Così sobria, così magnetica. Eppure così (stra)ordinaria.

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