Beckham, di Fisher Stevens

La docuserie sul campione di calcio inglese si avvale di molto archivio, mostra efficacemente le crisi più che le vittorie ma non giunge alla sua verità. Netflix

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David Beckham è talento. David Beckham è status. David Beckham è postmodernismo. David Beckham è controcultura. David Beckham per Fisher Stevens è il perfetto modello di assimilazione per un’intera generazione, come quella posta a cavallo tra i due secoli, vissuta nella piena esplosione delle prime teorie del controllo digitale, dell’estrema contaminazione inconscia della politica dell’icona. In fondo Becks, come racconta la docuserie targata Netflix, già in giovane età era contemplato come un essere altro dal restante establishment calcistico dell’epoca, in particolar modo all’interno del sistema ferreo del Manchester United di Sir Alex Ferguson. Giocatori come Ryan Giggs, Paul Scholes e Gary Neville, l’apice del più fervente desiderio della working class inglese, differiva completamente dal prototipo atipico di Beckham, che mostrava il proprio potenziale derivativo nei contorni del suo febbrile racconto di formazione professionale e non. Infatti lo stesso Stevens piazza il proprio arsenale a bordocampo. Sembra non voler entrare nel vivo della partita ma di rimanersene con occhio vigile sulle cupe sottigliezze del monumento di Leytinstone. Come a voler arrivare al momento propizio per sviscerare la tossicità mediatica di un sistema di imbrogli e archetipici oracoli privi di fondamento. L’elegia di Beckham viene tessuta nei codici del surreale, della stravaganza di un contemporaneo divinatorio ma dipendente dal declino.

La docuserie racconta (quasi) perfettamente l’inclinazione al delitto del proprio campione, facendo delle disgrazie sportive del suo protagonista, come il rosso contro l’Argentina di Francia ’98 o del fallimentare approdo in MLS, il punto nevralgico di un prodotto però restio dal navigare nelle acque inesplorate dell’effetto Becks. I passaggi si condensano nelle formalità di rito. Il leggendario numero 7 dei Red Devils sembra essere inscalfibile sotto i presunti attacchi di Fisher che, avvalendosi della ricostruzione archivistica, non giunge alla verità del suo campione. Forse è proprio l’immensa aurea di quest’ultimo, dissezionato come una cavia da laboratorio dai mass media per arrivare alla legittimazione del proprio operato, a far sembrare il tutto un’unica ed infinita sequenza distopica di rappresentazione olografica. Beckham si automatizza, non va oltre i propri spazi. Si muove attraverso linee prestabilite già raccontate sotto spoglie diverse. Ed è proprio qui che il contorno delineato da Stevens squarcia l’apatia del Beckham spirito. Ci riporta all’eterno dualismo del fenomeno, alla storia oltre la storia. Alla riesumazione di un’epoca folle come quella di inizio millennio, la prima a consacrare la caduta dell’intimità e l’ascesa dell’immedesimazione collettiva e delle sue divinità sintetiche.

Titolo originale: id.
Regia: Fisher Stevens

 

Durata: 70′ circa ad episodio

 

Distribuzione: Netflix

 

Origine: USA, 2023

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3
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    Un commento

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