Bellaria Film Festival. Intervista a Matteo Zoppis, regista di Re Granchio

In occasione del Bellaria Film Festival 2022 abbiamo incontrato Matteo Zoppis, regista insieme ad Alessio Rigo de Righi di Re Granchio. Ecco cosa ci ha raccontato

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In occasione del Bellaria Film Festival 2022, abbiamo incontrato Matteo Zoppis, regista insieme ad Alessio Rigo de Righi, di Re Granchio, passato l’anno scorso alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes e in questi giorni in concorso nella sezione Casa Rossa del festival romagnolo.

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Iniziamo parlando della genesi di Re Granchio: come e dove avete incontrato la storia di Luciano e come avete poi deciso di lavorarci?

Io e Alessio collaboriamo dal 2012. Conoscevamo un luogo e c’era una storia che ci interessava e quindi siamo andati in questa piccola casina di caccia nella Tuscia viterbese il cui proprietario è Ercolino, che poi è in tutti i nostri film, e all’interno i cacciatori si riuniscono dopo le cacciate e si raccontano delle storie. Noi abbiamo assistito a vari racconti. Mentre facevamo il secondo film abbiamo ascoltato una storia che però aveva molti meno elementi e quindi non potevamo fare un documentario, era una storia troppo vecchia, di fine ‘800, inizio ‘900, di un personaggio che era vissuto nel paese di nome Luciano che aveva avuto un conflitto con il principe del paese ed era stato mandato in esilio in Argentina a causa di un omicidio. Ma poi anche la storia dell’omicidio era vaghissima, non si capiva se avesse ucciso lui qualcuno oppure fosse un errore. Avevamo degli elementi che ci hanno portato fino all’esilio, poi del suo viaggio in Argentina non si sapeva niente. Quindi da buoni documentaristi ci siamo documentati, abbiamo trovato una traccia di un omonimo che era partito da Civitavecchia ed era arrivato a Buenos Aires alla fine dell’800, siamo andati in Argentina, la storia ci ha portati fino alla Terra del Fuoco dove poi abbiamo perso le sue tracce. Quindi ci siamo documentati ancora, abbiamo iniziato a leggere e a chiedere alle persone le storie locali, che erano storie di corse all’oro simili a quelle del West americano, però dicevano che l’oro provenisse dal mare. Poi c’erano storie di pirati, di navi affondate, avevamo un libro enorme di un’edizione introvabile che descriveva tutti gli affondamenti delle navi partendo da inizio ‘800. Quindi il tentativo del film era partire da una storia raccontata oralmente, come negli altri nostri film, e di far vedere poi come la storia cambia, si modifica, a seconda di chi la racconta, in modo simile a Il Solengo, ma poi di traslare, di portare la storia dall’altra parte del mondo dove si dicesse che fosse andato lui e di mescolarla, intersecarla con altre storie locali. Per esempio l’idea del granchio viene da una storia indigena, hanno un sacco di storie magiche, sulla luna, su alcuni animali…

Ritornando al discorso sui libri su cui vi siete documentati, i riferimenti cinematografici sono piuttosto chiari. Quali sono stati invece i vostri riferimenti letterari, sia in termini di fonti da cui attingere sia come fonti d’ispirazione rispetto ad un certo modo di narrare?

I riferimenti del cinema in realtà sono molto fuorvianti. È un po’ una critica alla critica, quella di affiancarti sempre a qualcosa. Che poi in realtà molte delle reference che avevamo sono molto diverse. Per esempio noi eravamo molto intrigati dal cinema di Monte Hellman per dire. Poi secondo me alcuni echi vengono fuori perché i luoghi sono quelli. Per esempio i Taviani non ci sono, per quanto siano pazzeschi. Noi abbiamo un modo di lavorare, di scambiarci immagini in generale. Che possono essere immagini cinematografiche, ma anche francobolli o delle stampe o un dipinto piuttosto che uno schizzo. Quindi lavoriamo molto sull’immagine. Abbiamo cercato di riportare questo concetto all’interno del film, quando si chiedono cos’è il tesoro. Il tesoro è un’apparizione, quindi è un’immagine. Ciò che tu vedi. In realtà ci sono un sacco di riferimenti più letterari. Per esempio quando abbiamo scritto la seconda parte eravamo molto ispirati dalle poesie di Dino Campana. Noi volevamo fare un film crepuscolare, questa era l’idea principale. C’è qualcosa nelle sue poesie che assomigliava a questa sensazione che avevamo e che volevamo cercare di sviluppare. E quando Dino Campana è andato in America, la domanda del suo viaggio, cioè se lui c’è stato no in America, questa cosa ci intrigava e trovavamo che fosse molto simile al nostro personaggio. Chissà se questo ci è andato mai veramente in Argentina o se erano delle voci di paese. Poi c’è un sacco di Màrquez, di Realismo Magico, di Bolaño, un sacco di letteratura sudamericana. Oltretutto abbiamo collaborato con una serie di scrittori argentini, cosa che continueremo a fare. C’è anche questo doppio aspetto, io sono figlio di un italiano e di una americana, quindi c’è tutta una parte sull’immigrazione, Alessio anche sta in Argentina. All’inizio ci eravamo ispirati tantissimo a delle lettere di immigrati italiani per poi sintetizzarle all’interno del film.

Il vostro è un film ibrido, c’è uno sguardo documentaristico, ma è un film di finzione, c’è il western ma gli stilemi del genere sono ridefiniti. Questo suo essere ibrido, questa fluidità, rispecchia un po’ il periodo storico che stiamo vivendo, la mancanza di riferimenti netti, specifici o la volontà di superarli, rileggerli, di adattarli a nuove necessità espressive…

In realtà noi non siamo dei documentaristi. Abbiamo fatto dei film di finzione prima, poi abbiamo fatto dei documentari perché quei progetti lì partivano da storie che avevamo ascoltato, è una scelta data da vari motivi. La nostra collaborazione parte dal fatto che c’era una storia di cui sapevamo alcune parti ma non avevamo mezzi per fare un film di finzione. Avevamo già scritto la sceneggiatura ma poi è successa una cosa durante il film. Mentre facevamo l’intervista, anche per capire cosa potenzialmente potesse diventare il film, apparivano dei personaggi e questo loro apparire costantemente faceva sembrare la casina come una specie di taverna western un po’ persa nel tempo, in cui apparivano delle persone a cui noi facevamo delle domande e loro rispondevano. Questa cosa ci ha divertiti e il film poi è nato così. Per quello siamo andati sul documentario. Poi col secondo film abbiamo cercato di riportare in scena quello a cui avevamo assistito, quindi una tavolata di persone che parlavano con noi. Poi con Simone D’arcangelo, il direttore della fotografia, abbiamo lavorato sul trovare una distanza che creasse da queste persone reali dei personaggi. All’inizio li avevamo filmati in un modo diverso che però non ci piaceva, sembrava che rubassimo delle immagini. E con lui abbiamo trovato una soluzione, mettendoci degli enormi limiti, prendendo la cinepresa più grande che potessimo prendere per non poterci muovere da nessun’altra parte se non intorno a questo tavolo. Quindi abbiamo trovato questa distanza che per noi creava dei personaggi. Cioè loro interpretavano loro stessi. C’era sempre una volontà di trasformarli in dei personaggi, tant’è che noi li vestivamo, io andavo negli armadi e li vestivo prendendo delle cose che di solito non mettevano. Noi ce li siamo sempre immaginati in un modo e ce li immaginavamo vestiti d’epoca. Con Re Granchio l’intenzione era di fare un film su un borghese, l’unico borghese di questo paesino, una sorta di alieno dentro al paese, che non appartiene né al mondo della corte né al mondo dei contadini. E un po’ rifletteva tutti i nostri sentimenti, questa sorta di cercare di fare delle cose e non riuscire mai a risolvere nulla, segui l’amore ma poi alla fine lo distruggi, cerchi di creare ma invece disfai le cose. Erano tutti sentimenti che noi provavamo, quindi il personaggio chiuso dentro se stesso, parla poco, fa poche cose e quando le fa le distrugge e basta, era un po’ quello che noi sentivamo di essere. Tant’è che abbiamo scelto Gabriele Silli sia perché è un nostro amico, ma anche perché aveva un insieme di caratteristiche che quando abbiamo ascoltato la storia ci ricordava il personaggio e noi ce lo siamo immaginati così. Poi lui ha fatto tutto un lavoro incredibile. Si è trasferito nel posto facendosi chiamare Luciano in modo tale che tutti lo identificassero così. Che poi di base è il metodo con cui lavoriamo noi, ascoltiamo un sacco di volte la storia, la ridiciamo a loro. Gli abitanti di Vejano sono dei bravi attori perché alcuni di loro sono anche dei grandi bugiardi quindi sono molto bravi a reimbastire le cose che vengono dette. Rispetto al genere noi avevamo un’idea molto chiara, volevamo fare un film western perché la casina ci ricordava appunto una taverna western. C’è sempre stata un’atmosfera che ci piaceva. E quindi volevamo fare una sorta di western nel sud del mondo, quindi un western di mare, dove si vede l’epilogo perché nei film western i personaggi non hanno un passato, non hanno un nome, arrivano nel Far West, in questo caso il sud, e non si sa niente di loro. E noi volevamo dimostrare chi è il personaggio che poi va nel west.

Un altro elemento fondamentale del film è la colonna sonora. Trovare i testi dei canti popolari che avete usato è stato difficilissimo, si trovano tantissime versioni diverse, spesso incomplete. Quindi ti chiedo: come le avete scelte, che tipo di ricerca avete fatto e poi che lavoro avete fatto con Vittorio Giampietro?

Con Vittorio Giampietro avevamo già fatto Il Solengo e io avevo lavorato già prima sui miei primi film da solo. E con lui volevamo espandere l’aspetto narrativo della musica, quindi per queste canzoni abbiamo fatto lunghe ricerche, come dici tu, complicate dal ritrovare i testi originali. La melodia è molto simile di regione in regione, ma i testi cambiano completamente. Ogni regione ha dei testi completamente diversi. E poi ci sono declinazioni della stessa musica anche all’estero, canzoni francesi che sono basate sulle stesse canzoni popolari, è come se fosse una parte dell’epica. Quindi quello che abbiamo fatto noi è stato ricercare i testi delle canzoni, alcuni dei quali ci ricordavano parti della nostra storia. E abbiamo lavorato cambiando i testi, di base adattandoli alla nostra storia. La povera Emma è una canzone che c’è in tutte le regioni, il testo poi differisce. C’è un libro molto interessante, difficilissimo da trovare, in cui viene spiegato come e perché i testi differiscono e anche le motivazioni delle differenze. Quindi ogni regione adattava il testo a qualcosa all’interno della propria epica regionale. Poi abbiamo fatto cantare tutte le persone del paese e con loro abbiamo riprodotto i testi cercando di mantenere una pasta simile a quella delle registrazioni originali. Fino ad arrivare a Giovanna Marini che è un’etnomusicologa che ha passato tutta la sua carriera a studiare le musiche popolari, e lei ci ha cantato l’ultima canzone, quella degli zecchini d’oro.

Un’ultima suggestione: c’è una certa tendenza nel cinema, tra tutte Alice Rorhwacher, ma non solo – penso ad esempio ad Alcarràs di Carla Simón – di recuperare certe tradizioni. Ma non è solo una tendenza del cinema, si riflette anche nella società, ad esempio nel recupero di alcune attività artigianali, di prestare attenzione a tutta una serie di cose che si stanno perdendo nel tempo. Sia rispetto al vostro lavoro, sia rispetto al cinema in generale, vi riconoscete in questa cosa? C’è un interesse da parte vostra di portare nel vostro cinema questo aspetto?

Non lo so, questo me lo devi dire tu. Io non ho fatto nessun film a tavolino, è nato in modo molto spontaneo. C’era un luogo dove si raccontavano delle storie che ci piacevano e che ci hanno dato la possibilità di creare un filone di storie. Tant’è che dall’inizio, almeno io mi immaginavo una specie di cofanetto, pensa quanto sono antico, coi dvd dei film, fatto a forma di casetta di caccia. Ma poi penso che comunque le tradizioni stanno svanendo e secondo me è un peccato, sembra una stupidaggine romantica detta così. Ma c’è un sacco di sapere dentro la tradizione orale, il mondo fuori dalla città. Poi c’è anche una critica che uno si può fare, cioè che uno si interessa alle storie di campagna quando sta in città. Però noi siamo interessati un po’ all’immaginifico che queste storie portano e alla possibilità di fare del cinema attraverso il genere. Poi ben venga se magari ci fosse una new wave. Credo che ci debba essere dialogo tra i film. Le wave, le correnti, si creano quando c’è un dialogo tra i film. Non voglio sembrare individualista in questo senso. Sicuramente ci sono delle influenze anche indirette. Ma ci sono influenze indirette anche di tanto cinema estero, di amici nostri. Però io penso che poi i film debbano creare un discorso che mette in crisi il discorso dell’altro per creare discorsi sempre nuovi.

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