BellariaFF – Vedere l’invisibile. Intervista ad Alice Rohrwacher

Durante il festival la regista ha tenuto una masterclass, raccontato del suo ultimo film La Chimera, del suo metodo di lavoro, ma anche dei progetti in cantiere. Ecco la nostra intervista esclusiva

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L’evento principale della prima giornata della 42esima edizione del Bellaria Film Festival è stata la masterclass di Alice Rohrwacher (dal titolo Vedere L’invisibile) presente con il suo ultimo film La Chimera. Durante l’incontro la regista ha parlato del suo metodo, che si ripete pellicola dopo pellicola e che svela sempre uno sguardo deciso dietro la macchina da presa. Uno sguardo che sceglie di non nascondersi, ma che anzi rivela continuamente delle traiettorie chiare e in continua crescita. La predilezione per i sentimenti e le sfaccettature dei suoi personaggi mettono da parte la spasmodica ricerca dell’immedesimazione tanto voluta dai prodotti del contemporaneo. Ecco che quindi Alice Rohrwacher parla di questa tendenza pensando a come le produzioni guardano gli spettatori: “come dei pesci da prendere all’amo, e non come un pubblico pensante”. Questo della serialità però non è stato un discorso fine a se stesso, e infatti la regista fiorentina ha rivelato di star lavorando a una antologia (sottolineando questa differenza con la serialità) tratta dalle fiabe italiane per bambini. Ce ne ha parlato anche nel corso della nostra intervista esclusiva.

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Riguardo questo tuo progetto sulle fiabe italiane a cui stai lavorando, ci hai tenuto durante la masterclass a sottolineare che non sarà una serie ma un antologia

Dal punto di vista puramente commerciale sarebbe una serie. Nel contemporaneo la serialità è sempre legata a un racconto che non si conclude mai, soprattutto al sentimento dell’angoscia che è qualcosa che fa sì che guardi l’episodio successivo. L’antologia è una cosa diversa perché ogni racconto è autoconclusivo. Hanno funzioni diverse. Perché quindi un’antologia? Perché il significato per svolgersi ha bisogno di tanti esempi. È proprio questo il motivo per cui le fiabe sono sempre state raccolte in antologie.

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Cosa possiamo aspettarci? Un racconto che si ripete, una serie di racconti…

Sono le fiabe italiane. Che sono state anche raccolte da Italo Calvino. Lui le ha prese dalle antologie del ‘600 e le ha rinfrescate linguisticamente. Lui ha fatto un lavoro bibliografico, non ha fatto un semplice lavoro di raccolta. Allora io ho pensato di fare un po’ la stessa cosa: prendere le fiabe e rinfrescarle visivamente, restando comunque rispettosi del racconto. Perché dentro quel racconto ci sono, come direbbe Walter Benjamin, i semi dei grani trovati dentro le piramidi che hanno mantenuto il loro potere germinativo. Questi grani che hanno mantenuto la loro forza nascosti sottoterra, nel corso dei secoli. Secondo me nella fiaba c’è il potere germinativo nascosto.

Restando sul tema della favola nei tuoi film, i personaggi sembrano muoversi costantemente in tempi e spazi fortemente definiti; com’è tipico della favola, come quasi incastrati tra l’antico e il moderno. Quanto significa per te questo elemento fiabesco?

In realtà per me il fiabesco è dentro il reale. Non è qualcosa che cade dal cielo. Spesso quando pensiamo alla parola “fiaba” abbiamo come una specie di pregiudizio, pensiamo che sia in un luogo indefinito, altrove. Invece tutti i film che facciamo nascono da un attenta osservazione del reale. Ma cosa offre la fiaba in più? Un passo indietro dal reale, la capacità di vedere nel reale un racconto del destino. Il racconto di un personaggio che non è solo un individuo, ma è l’eroe della fiaba, che è un’altra cosa. Permette di non farti acchiappare soltanto dalla narrazione delle vicissitudini che capitano al singolo, ma anche di vedere attraverso il singolo il destino di una comunità. Bisognerebbe innanzitutto sfatare un pregiudizio che sta nella parola stessa, perché pensiamo alla fiaba sin dall’infanzia come qualcosa di fortemente separato dalla realtà. Ma se andiamo a vedere le fiabe italiane iniziano nel ‘500 o nel ‘600, eppure quando si iniziano a catalogare sono già ben inserite nella realtà. Questa è sicuramente una peculiarità della fiaba italiana: il fatto che è fortemente inserita nel contesto reale. Da qui è nato questo mio desiderio di vedere l’altrove dentro le cose.

Tornando al documentario Futura, realizzato con Pietro Marcello e Francesco Munzi, quanto hai avvertito del cambio generazionale, e quanto e cosa ti hanno dato quei giovani? Tu cosa hai imparato?

Partiamo dal fatto che quel documentario si svolge durante la pandemia, quindi un momento durissimo per i giovani e le nuove generazioni. In qualche modo i loro scambi erano molto ridotti e secondo me è stato un momento di forte chiusura. Io però sento che dopo la pandemia nei giovani c’è un apertura diversa, una necessità diversa. Io credo molto nei giovani, e cerco sempre di dare un messaggio di speranza concreto. Per citare Gramsci, pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà. Ti sto parlando della mia volontà, che è ottimista. La ragione invece è pessimista ma soprattutto perché penso a chi in questo momento tiene le redini dei desideri e dei bisogni che vengono innestati in una società.

La Chimera tra le molte piste che apre riconferma un tuo sguardo fortemente interessato al contatto tra uomo e natura, in una chiave quasi naturalista. Si potrebbe definire il tuo sguardo come una sorta di “Eco Cinema”?

Quello che faccio in genere è andare contro le etichette, non a caso ho fatto un film che sono proprio curiosa di vedere che succederà quando finirà sulle piattaforme, perché è un po’ un dramma, un po’ una commedia, un po’ un avventura… Io non so dove lo metteranno. E l’ho fatto per far capire che la vita è una cosa complessa, che sfugge sempre alle definizioni. L’unica distinzione che accetto è tra film morti e film vivi. In qualche modo credo che La Chimera, anche con tutte le sue imperfezioni, sia un film vivo. Quindi è difficile per me mettere delle etichette nel cinema. Piuttosto mi interessa capire se c’è vita. È chiaro che se metto nei film delle tematiche che riguardano l’ambiente lo faccio da cittadina, non da regista. Lo faccio perché ho gli occhi aperti e non posso far finta di niente. Non riesco a raccontare una storia senza coinvolgere il mondo che mi sta attorno, che io vivo. Alla base delle guerre, delle migrazioni, di tantissimi conflitti c’è il dramma ecologico.

Secondo te c’è una coesione tra i nuovi autori del cinema italiano, penso a Pietro Marcello appunto o anche Carpignano, nella continuità dei temi che trattate?

Io sono sempre portata a prediligere l’unione. La cosa più bella che può succedere è pensare al tuo film e dire “non l’ho fatto io”. Nel senso che va oltre me. Credo che si è cercato di soffiare sul fuoco dell’autorialità anche per separare i registi. Fargli pensare che è una guerra uno contro uno. E questa è una cosa specifica di questo Paese, soffiare sull’ego in modo che questo si incendi e tu possa pensare solo a come difendere il tuo ego. Però questa roba ha stufato, e penso che veramente possiamo andare oltre, e bisogna spegnere questo incendio. Chiaramente io ho bisogno di usare il mio nome per dare risonanza al progetto, per generare un’economia e richiamare le attenzioni. Alla fine quello che mi interessa realmente è cosa accade dopo il film. E in questo io trovo che c’è molta vicinanza, nel senso che Pietro Marcello ha scritto il soggetto de La Chimera con me, Jonas Carpignano è la prima persona a cui mando tutto quello che scrivo per sapere cosa ne pensa. Con Francesco Munzi ci sentiamo quasi tutti i giorni. C’è una generazione che mi sembra piano piano vada oltre la guerra degli autori. Stiamo parlando del destino di uno o del destino di molti? Ci interessa del destino della società o del singolo? Stiamo parlando di qualcosa che dovrebbe andare oltre. Quindi se loro fanno bei film io sono felicissima!

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