#Berlinale2016 – Soy Nero, di Rafi Pitts

Come in The Hunter, Pitts costruisce un apologo politico che cerca di mettere a fuoco e bersagliare le linee di tensione di un sistema. Il rischio è un’eccessiva schematicità. In concorso

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Prima c’è il muro  che separa il Messico dagli Stati Uniti, quella barriera che Nero Maldonado prova ad attraversare in tutti i modi, pur di entrare nella parte illuminata della terra. Poi c’è il posto di blocco nel pieno deserto mediorientale.

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Pur diviso in due parti e in due ambientazioni ben distinte, il passaggio della frontiera e il teatro di guerra, in realtà Soy Nero sembra svolgersi tutto in una no man’s land, in quella assurda striscia di terra tra i confini, in cui ogni affermazione identitaria è impossibile. Nonostante tutte le rivendicazioni di appartenenza, bianchi, neri, latinos, arabi, west coast ed east coast, nord e sud, il sangue si mescola nella babele delle lingue, si confonde nei fuckin’, nell’incontrollata proliferazione degli intercalari e delle imprecazioni. Le differenze rimangono, ovviamente, tutte le divisioni, ma sono stabilite non tanto dall’origine, quanto da un’ID, da una carta che certifichi ogni cosa e che stabilisca chi è chi, al di là del colore, della lingua, della fede (musicale). Divide et impera. Quello di creare separazioni è un compito che spetta al potere, agli stati di polizia, alla forza delle armi, a quella economica (e tutta la sequenza nella villa di Beverly Hills è chiara sul punto). Il potere è dio e, perciò, chi riceve la sua benedizione è Gesù. Nero, per una combinazione di casi, è unto dal signore e si ritrova sul lago di Tiberiade a separare i vivi dai morti. Ma è solo un momento. Quell’unzione è stata usurpata, rubata. La green card va, invece, conquistata sul campo, con la pelle. E quel campo è un deserto allucinante. Ne vale davvero la pena poi? Ma chi sei tu davvero? Your first name? La storiella sulla formica e l’elefante, raccontata all’inizio del film, la dice lunga.

 

soy nero2Rafi Pitts dedica il suo film a tutti quei soldati che si sono arruolati e hanno combattuto per ottenere la cittadinanza americana, ma che, poi, si sono visti espulsi e deportati. E, dunque, come in The Hunter, costruisce un apologo politico che cerca di mettere a fuoco e bersagliare le linee di tensione di un sistema. Là c’era l’Iran, qui gli Stati Uniti. Ma l’obiettivo, in fondo, non cambia, è sempre rivolto contro le gabbie e le terminazioni nervose dei centri di controllo, contro i tutori dell’ordine che non fanno altro che tutelare la paura. Nero vive tutto questo, da una parte e dall’altra, ma nonostante i suoi sforzi rimane un rinnegato, resta un sorvegliato speciale, disarmato e tenuto a distanza. Il sistema non produce energia rinnovabile.

Ecco, proprio perché ha la forma parabola, Soy Nero si svincola dal particolare per farsi riflessione generale. Ma, lungo questo percorso, perde la presa sul suo protagonista, le cui spinte e motivazioni diventano più ideali che reali, più dichiarate che vissute nella carne. La sua via crucis è programmata e finisce per soffrire di un’eccessiva schematicità, soprattutto nella seconda parte, in cui lo scenario di guerra diventa un set da incubo, un luogo indefinibile di sole, rocce e miraggi, che racconta lo spaesamento del protagonista. Si avvertono le tracce del war movie contemporaneo, da The Hurt Locker in poi. Ma il contesto sfuma nell’indistinzione, mentre il discorso diventa eccessivamente scoperto, dalle discussioni sull’origine tra i commilitoni, alla disperata scelta suicida del sergente interpretato da Rory Cochrane. E alla fine, quella voce fuoricampo del finale non fa che sottolineare tutto ciò che sapevamo già, sin dall’inizio.

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