BFM37 – Le infinite strade dell’estetica

Da Luca Ferri a Benjamìn Naishtat, la prima giornata del BFM è all’insegna delle storie fuori dalla norma, per delle proposte di cinema che si alimentano del loro stesso essere oggetto estetico.

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Nel giorno in cui Jean-Pierre Léaud arriva al Bergamo Film Meeting per presentare la retrospettiva che gli sarà dedicata (da I quattrocento colpi al rarissimo La concentration), la rassegna regala subito al suo ormai affezionato pubblico degli esempi di cinema fuori dagli schemi e dalle convenzioni. Quasi a voler rimarcare che quella corsa di Léaud bambino verso il mare ha ancora oggi delle attitudini da manifesto dell’anarchia filmica, fungendo da memorandum per un cinema che sia di infrazione del paradigma.

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Ed è per questo che la scelta di ospitare Nathalie Djurberg & Hans Berg diventa improvvisamente coerente, il naturale inizio di un nuovo percorso che vuole andare oltre l’idea statica di narrazione. «La mia idea di arte – afferma la ragazza svedese –  è una lenta discesa verso la follia». Dietro di lei uno schermo cinematografico su cui è appena passata una breve raccolta di lavori firmati dal duo, esempi di videoarte in apparenza così lontani per durata e formato dall’essere contemplazione tranquilla del vivere quotidiano. Eppure l’evoluzione frame by frame di quei puppet appositamente creati dalla Djurberg potevano alimentare il falso mito di una rappresentazione cartoonesca dell’io, che andasse alla ricerca di una mediazione in qualche modo accomodante. Questione mai presa in considerazione dall’artista: «Spesso non osiamo guardare l’oscurità,  ne abbiamo paura. Ma ciò è un rischio perché poi quel malessere cresce dentro di noi a nostra insaputa». Worship, Bang your little drums e Delights of an undirected mind   si sono susseguiti alle sue spalle come un flusso di coscienza, fascio di luce che vomita sul telo bianco le fasi freudiane dell’essere umano ai tempi del capitale.

Su quella stessa parete poco tempo dopo è il momento di un film destinato a diventare un cult nei circuiti di rotazione underground. E’ Pierino di Luca Ferri, film che per cinquantadue giovedì consecutivi immortala la vita di uno dei capisaldi di Lab 80, l’appassionato signor Aceti. Così succede che proprio in quella sala bergamasca avvenga finalmente il ricongiungimento definitivo tra l’anima cinephile di Pierino Aceti, scrupolosamente rapita in formato VHS, ed il suo lato organico di spettatore che in carne ed ossa si guarda sullo schermo. Pierino si autodefinisce «ammalato di cinema», una malattia che

Bergamo Film Meetingalimenta scrupolosamente da quando è bambino e che non intende assolutamente curare. Ma l’intento del film, ribadisce il regista, non era quello di raccontare la cinefilia: «Se si fosse scelta quella via si sarebbe snaturata una fisionomia, facendola diventare sì più appetibile per le distribuzioni festivaliere, ma poi meno significativa sul lato formale. A me interessava la forma – afferma Ferri – al punto che paradossalmente questo film potrebbe esistere anche senza Pierino».

Forte ragionamento estetico – in realtà molto lontano dalle sfumature soft porn di Pierino – che coinvolge anche il primo dei lavori della sezione Mostra Concorso.  Già presentato a Toronto, arriva al Bergamo Film Meeting Rojo di Benjamìn Naishtat.

Dopo anni di anni di totale abiura, l’uso dello zoom a stringere sul primo piano di un personaggio è tornato ad essere tendenza espressiva. Soprattutto quando l’intento è quello di voler riproporre delle atmosfere naïf, tipiche di un certo cinema legato alla stagione ’70-’80. Naishtat cavalca l’onda e struttura una storia che si alimenta soprattutto di questo tipo di suggestioni, riportando lo spettatore a luoghi e tempi mai conosciuti. Argentina, metà anni Settanta. Sul Paese pesa il macigno della violenza politica che presto porterà alla destituzione di Isabel Martínez de Perón e all’inizio di un regime militare durato 7 anni. Claudio è un avvocato di mezz’età, una vita da borghesuccio felicemente sposato. Una sera però un uomo misterioso, dopo averlo instigato in un ristorante, lo aspetta fuori e decide di togliersi la vita davanti agli stessi occhi di Claudio.

L’avvocato anziché cercare di salvarlo lo lascia morire nel deserto, sobbarcandosi di un macigno che macchierà definitivamente il suo vivere quotidiano.
Inizia così Rojo, un lungometraggio che ha come intento dichiarato quello di giocare sulle ambiguità dell’animo umano proponendo la più classica delle dicotomie, quella tra personaggio pubblico e le sue ambiguità private. Naishtat propone questa distinzione giocando sul colore, alternando viraggi rossi – quelli delle istintualità, delle pulsioni – ad immagini bluastre, di freddo interiore. Il modello è Larraìn, ma anche l’Elio Petri di Indagine. Certo Dario Grandinetti non lavora sulla fisicità come faceva Volonté, né vuole raggiungere le punte grottesche messe in campo da quel poliziotto romano in coppia con Salvo Randone. Ma la necessità di farsi personaggio super partes è evidente già in fase di scrittura e Grandinetti segue quella traccia per raccontare un uomo che si compiace del suo stato sociale.        

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