BFM41 – Incontro con Ursula Meier

La regista di La Ligne ha tenuto un incontro in seguito alla proiezione del suo lungometraggio Sister. A lei, il Bergamo Film Meeting in corso ha dedicato la sezione Europe, Now!

--------------------------------------------------------------
CORSO DI SCENEGGIATURA ONLINE DAL 6 MAGGIO

--------------------------------------------------------------

All’interno della 10 giorni bergamasca arriva Ursula Meier. Alla regista franco-svizzera e al belga Jaco Van Dormael, il Bergamo Film Meeting ha dedicato Europe, Now!, la sezione dedicata al cinema europeo contemporaneo.

--------------------------------------------------------------
#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

--------------------------------------------------------------

L’incontro si è tenuto a Milano alla Scuola Civica Luchino Visconti in seguito alla proiezione del suo secondo lungometraggio del 2015 Sister, film grazie al quale riceve una menzione speciale per l’Orso d’argento al Festival di Berlino e rappresenta la Svizzera nell’ambito dei film proposti per l’Oscar 2013 al miglior film straniero. La gestazione che ha portato alla realizzazione del film parte da un viaggio in treno in cui la Meier si immagina la storia di un ragazzino che per vivere compie furti occasionali negli impianti sciistici. Questo flash, con il tempo, si è legato al ricordo di un’esperienza realmente vissuta in tenera età dalla regista stessa.

“La parte più complessa in un film è l’origine del processo creativo alla sua base e il conseguente impegno economico. Dunque, è importante capire che film si vuol fare e come è possibile realizzarlo, anche solo un errore può costare caro. È fondamentale aver chiara l’idea e l’urgenza di raccontare una storia. Nel caso di Sister ero su un treno da Parigi a Ginevra e mi è venuta in mente l’immagine di un bambino che ruba in una stazione sciistica. Una mattina ho poi recuperato il ricordo che mi aveva fatto sviluppare quest’idea. Io sono cresciuta ai piedi di una catena montuosa e da casa potevo scorgere una cabinovia. Da piccola, sciando, ho visto un signore che additava un bambino avvisandoci del fatto che fosse un ladro. Questa segnalazione mi aveva colpita, sia per i modi bruschi, sia perché mi sembrava strano rubare in una stazione sciistica. Sciare, d’altronde, è uno sport per benestanti. Questo bambino mi ha incuriosito e ha scatenato la mia immaginazione. È stato alla fine del film che mi sono soffermata su una famosa foto di Doisneau che riassume tutto il film. Ora quella foto è sulla mia scrivania. Mi ha sempre affascinato la poetica della fotografia: l’idea di sognare dormendo con gli scii è un sostentamento affettivo. Questa falsa identità che il protagonista si inventa lo aiuta a sopportare una vita molto dura. L’idea di una madre che si finge sorella del ragazzo me l’ha suggerita il mio collaboratore.”

Sister raccoglie gli sguardi dolorosi ed esterrefatti dei due protagonisti, madre e figlio, o meglio, fratello e sorella, un legame rinnegato che sembra potersi ricongiungere in un’ultima sequenza di grande intensità emotiva.

Si assolutamente è vero, questa madre (Léa Seydoux) che rinnega il suo ruolo di madre, tiene a distanza il figlio fino alla scena in cui lui le offre del denaro per ricevere affetto. Quando viene rivelata la vera natura del loro rapporto è già troppo tardi. Il protagonista, Simon, non è più un fratello ma neanche un figlio. Si trova in una terra di mezzo e non può fare più nulla per cambiare la situazione, fino a che non decide di allontanarsi definitivamente. Questo gesto porta per la prima volta la madre ad andare a cercarlo. Questo ultimo sguardo che i due si scambiano nell’ultima scena può effettivamente portare a qualcosa. Non è un happy-ending hollywoodiano ma comunque vediamo uno stupore negli occhi del ragazzo che potrebbe germogliare in un nuovo rapporto. Quest’ultima espressione indica sollievo per me, l’inizio di un legame differente.”

La carriera di Ursula Meier si lega indissolubilmente ad un rapporto stretto tra finzione e documentario, attraverso l’analisi, effettuata con grande abilità, della profonda ambivalenza dei legami emotivi. Il realismo caratterizza non solo i suoi lavori nel campo del documentario ma influenzano profondamente anche i suoi film di finzione. In Sister, ad esempio, viene descritto con grande lucidità il mondo del turismo sciistico, grazie ad un lavoro di forma sugli spazi e sui soggetti rappresentati.

“Sicuramente il punto centrale di un film è l’immaginario e credo che più si sviluppa l’immaginazione più ci si radica nella realtà. Ho deciso di seguire la polizia di Vernier per entrare in contatto con la realtà di un luogo particolare. Qui lo spettatore può osservare il rovescio della medaglia di un mondo costruito per chi ha i soldi. Chi vive e lavora in questi posti, compresi gli stagionali, viene mal pagato e non ha un soggiorno adeguato. Per me è stata molto importante questa realtà. È un film politico più che sociale. C’è questa alternanza tra alto e basso, ricchi che si divertono e poveri che lavorano per accontentare i ricchi. Tra questi due mondi si instaura un rapporto di fiducia che se disatteso, porta ad una reazione violenta proporzionale alla fiducia mancata. È anche vero, però, che volevo dare della Svizzera un’immagine diversa da quella pittoresca che viene raccontata solitamente. Il giovane protagonista è una formichina che lavora nei luoghi più piccoli della stazione, il paesaggio cala in secondo piano, si mostra solo verso la fine del racconto dove Simon si rende conto di ciò che ha davanti.”

La regista cresciuta nella Francia orientale, vicino al confine svizzero, racconta il suo percorso, accademico e lavorativo, che l’ha portata ad essere uno dei più importanti cineasti europei. Prima gli studi di produzione cinematografica e televisiva in Belgio presso lo IAD – Institut des Arts de Diffusion che le permettono di lavorare come assistente di Alain Tanner nella seconda metà degli anni ’90. Poi, il suo film di diploma Le Songe d’Isaac e il successivo Des Heures sans sommeil (1998), che ricevono diverse menzioni e premi per la ricercata anticonvenzionalità, le permettono il successo necessario per potersi dedicare completamente al cinema. è proprio sul concetto di andare oltre il proprio seminato che insiste la regista di La Ligne.

“Ho lavorato con Isabelle Huppert, pensate i rischi che ha corso interpretando la protagonista de La pianista. Bisogna osare e andare oltre “il terreno sicuro”. Nella mia esperienza come giudice ai festival, mi è capitato di vedere cortometraggi ben diretti ma non appassionanti. L’emozione non filtrava. Opere più rischiose hanno ottenuto risultati maggiori. Io stessa ho avuto la fortuna di realizzare un corto che ho realizzato andando contro tutto ciò che avevo imparato alla scuola di cinema. Ho lasciato liberi gli attori di fare quello che volevano, tanto qualcosa sfugge sempre. Nel concedermi questa possibilità ho trovato riconoscimento da produttori e premi. Se si corrono dei rischi non si perde niente. Non bisogna ripetersi, non bisogna rinunciare a quello che si vuole fare ma scegliere di percorrere terreni sconosciuti. Dovete sbattere la testa e avete la fortuna di frequentare una scuola dove esiste la possibilità di sbagliare.”

Nel corso dell’incontro, la Meier riflette sulla questione di genere, spesso fonte di dibattiti interni in un’industria che sta cercando di evolversi raggiungendo quella parità di genere che spesso e volentieri è venuta a mancare nel mondo del cinema.

“Io stessa ho frequentato una scuola di cinema e su quindici studenti eravamo due donne. Oggi le cose sono molto cambiate, si raggiunge tranquillamente la parità. Questo mi fa un grandissimo piacere, e constato quanto questo mestiere sia cambiato. Le donne che fanno una carriera dedicata alla regia non sono tantissime, è vero, anche se la Francia è un’eccezione rispetto agli altri. Io non ho mai visto un problema di genere anche perché ero immersa nei miei pensieri. Oltretutto, inconsciamente, i miei riferimenti sono tutti al femminile: Chantal Akerman, Jane Campion, Kathryn Bigelow mi hanno aiutato ad andare avanti. Se devo dirla tutta, non ho mai riscontrato complicazioni, o differenze di genere, forse è stato più una questione di atteggiamento. I ragazzi erano molto più concentrati sulla tecnica, questo, però, li distoglieva dal punto della questione, cioè cosa volessero dire…

Io lavoro da sempre con Agnes Godard che ha lavorato con Wim Wenders e Claire Denis. Mi sono circondata di donne nella mia troupe, nata al femminile forse per un’affinità nel modo di lavorare. Detto questo, esiste una linea di confine che è rappresentata dai blockbusters che non sono mai affidati a una donna (a parte Wonder Woman). Infine, sottolineo che sto parlando della mia esperienza personale, del mio paese. So che esistono altri paesi dove le donne fanno molta più fatica. E aggiungo, in qualche modo negando tutto ciò che ho detto finora, che una volta in uno stage per un’emittente belga, non ho potuto collaborare presso la sezione sportiva perché il redattore non pensava fossi realmente interessata allo sport e mi ha riso in faccia.”

Le ultime battute dell’incontro si consumano sul lavoro di costruzione dei personaggi e sul processo di trasposizione, dalla parola all’immagine, adottato da una regista da sempre impegnata nella ricerca di una caratterizzazione veritiera dei suoi protagonisti, mai perfetti, ma sempre umani.

“La cosa più importante nel lavoro è sviluppare il più possibile il lavoro di sceneggiatura. Sul set poi ogni cosa va da sé, ma non ha il tempo di riorganizzare il tutto. Per me è fondamentale la riflessione fatta a monte, poi mi lascio guidare dal lavoro fatto prima. Nel tracciare il ritratto di un bambino non avevamo riferimenti. Non ci sono riferimenti di cronache intorno a noi e, proprio per questo, è stato interessante immaginare quelle che potevano essere le esigenze del bambino, il suo sopportare questa terribile condizione di mancanza di amore attraverso la proiezione di una vita immaginata, la sua percezione distorta del denaro e del suo potere. Credo che fosse Renoir il regista che affermava che ogni personaggio ha le sue buone ragioni. Io traccio spesso caratteri difficili come nell’ultimo mio lavoro La Ligne. In Sister volevo scavare nelle complessità del rapporto tra madre e figlio, volevo mostrare come quest’ultimo potesse risultare, a volte, insopportabile, come tutti noi d’altronde. Ho dovuto parlare tanto con Lea Seydoux che ha faticato molto ad amare il suo personaggio. Abbiamo ricostruito intere scene del suo passato finché non è riuscita a difendere il suo personaggio, nonostante fosse complicato empatizzare con lei.”

--------------------------------------------------------------
CORSO ONLINE SCRIVERE E PRESENTARE UN DOCUMENTARIO, DAL 22 APRILE

--------------------------------------------------------------

    ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER DI SENTIERI SELVAGGI

    Le news, le recensioni, i corsi di cinema, la riviste, i libri, gli eventi e tutte le nostre iniziative


    Array