Blog NET NEUTRALITY – Jean-Luc Godard: il più celebre dei dimenticati

Con la morte assistita, perché esausto ma non malato, Godard ha chiesto di abbandonare questo mondo a 91 anni. Lascia in eredità un vuoto incolmabile, un vuoto cosmico come intellettuale e cineasta

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C’è stata una cosa strana, bella, provocatoria, influente, a tratti ineguagliabile, si chiamava Cinema del Novecento. Uno dei cavalieri dell’Apocalisse, probabilmente l’ultimo, ha deciso, perché esausto, di lasciarci a 91 anni, Jean-Luc Godard. Incendiario e misantropo soprattutto negli ultimi anni. Ci fu un tempo, tra la fine dei ’50 e gli inizi dei ’60, in cui esplose in tutte le arti il rifiuto degli schieramenti della Guerra Fredda e si riprese a dire “io” al posto di “noi”. Una generazione di sperimentatori insofferenti si impose in ogni dove e Godard guidò i ribelli del cinema di papà, capaci di soppiantarlo.

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1960, Fino all’ultimo respiro, fu montato dalla situazione, anziché montare la situazione attraverso la storia da raccontare. Il montaggio era fatto dal protagonista, essendo affetto dalla stessa dissociazione psichica, dalla stessa gratuità di gesti, dalla stessa stranita follia. Oltre la comunicazione o contro la comunicazione? L’arte è sempre contro la comunicazione, non porta un messaggio. “Se avessi voluto portare un messaggio avrei fatto il postino…”, diceva Edoardo De Filippo.

Ma Godard andava anche oltre i giovani arrabbiati: in ogni angolo di Parigi di quegli anni si sperimentava un pensiero, una filosofia, un’idea dell’arte, dalla carta delle riviste partì la rivolta guidata da Godard, contro il cinema del passato. Basta con i cliché, con le frasi fatte, con gli Studios, con la tradizione. In ogni immagine è contenuto un grano del reale, quel reale che il cinema tradizionale ha fatto sparire e che Godard voleva recuperare. “La televisione produce oblio, il cinema produce ricordi…”. Apparentemente anacronistico, il pensiero tra i più conosciuti e consumati quando si presume di conoscere Godard, invece mostra proprio quel che non sappiamo ancora dell’immagine, la sua bellezza che ancora non ci appartiene, che “ci parla muta mentre ci include”.

In fondo, l’oblio, che conduce ad essere irrecuperabili esausti, è necessario e quando non si compie del tutto, tutto comunque si ricostruisce, si deforma, la rimozione di eventi realmente accaduti ci porta alla formazione di falsi ricordi. La televisione è controllata dal presente, dal desiderio, dalle paure, il cinema deve abitare le paure, lasciarci in quarantena costante, lasciare tracce, impronte. E la sala, intesa anche qualsiasi delimitazione virtuale, è perciò il luogo che più si oppone al loro dissolvimento, all’incalzare implacabile dell’oblio. Bertold Brecht: “Come si alzerebbe l’uomo al mattino senza l’oblio della notte che cancella le tracce? La fragilità della memoria (e del cinema) da forza agli uomini”.

Per adesso possiamo immaginare un diario, la parola che non si è fatta ancora comunicazione, le uniche forme narrative incisive che non trasfigurino e compromettano definitivamente l’immaginario. Proprio adesso quindi: “Il cinema deve andare ovunque. Bisogna fare la lista dei luoghi dove non c’è ancora e farcelo arrivare. Se nelle fabbriche non c’è, deve andare nelle fabbriche. Se nelle università non c’è, bisogna portarcelo. Se nei bordelli non c’è, deve andare nei bordelli”.

Corpo estraneo, proveniente da una galassia sconosciuta, Godard ha fatto suo ancora di più l’aforisma enigmatico di Kafka: “Compiere il negativo ci è ancora imposto, il positivo ci è già dato”. Recuperare il reale quindi non significa naturalismo, significa forma, montaggio, luce. L’arte, il cinema è la forma, e la forma, l’estetica, diventano anche etica. Niente deve restare come prima. La sua opera prima, Fino all’ultimo respiro, è stato il risultato di dieci anni di cinema senza mai fare un film, soltanto tentando di farne, scrivendo, ragionando, confrontandosi. Veniva da una grande famiglia borghese svizzera, protestante e antisemita, con la quale ha rotto, a suo dire, molto tardi, ma in modo definitivo.

Il che faceva sì, che l’unica differenza con qualche suo “amico” collega di quegli anni, è che quando andava in vacanza non sapeva dove andare. Truffaut lo ricordava da giovane: “Non portava gli occhiali, aveva i capelli ondulati, era molto bello, dai tratti molto regolari. Se si era a casa di amici, la sera, era facile che aprisse 40 libri, guardando sempre la prima e l’ultima pagina, era sempre molto impaziente, era sempre molto nervoso…”.

Per Godard, Truffaut si è fatto prendere dal cinema e lui stesso è diventato tutto quello che detestava. A leggere i suoi articoli e poi a vedere i suoi film, si restava sbalorditi. Gli attori che non capivano fino in fondo, fino all’ultimo respiro appunto, che film Godard si apprestava a girare, ogni giorno la sceneggiatura cambiava, senza luci, senza make-up, senza suono. D’altronde se la parola “fa vedere” diventa inaudibile, e se l’immagine “fa sentire” diventa invisibile.

Però c’era un aspetto positivo, probabilmente il culmine della magia del cinema: si diventava improvvisamente davanti alla macchina da presa spontanei, veri. Il cinema nel suo farsi. Girare, dopo litigi furibondi, abbandoni improvvisi e prolungati sul set, con macchina a mano e con ritmi vertiginosi in apnea, di slancio, senza preavviso, senza ciack. Godard, come lui nessuno bruciava i tempi. Ha usato le immagini come fossero parole.

Il più celebre degli artisti dimenticati: da molti anni, circa 30 anni, ha lasciato scorrere le sue immagini per ricordarci che un certo mondo non c’era più, non solo quello del cinema, ma qualcosa di più cosmico. Qualcosa di più cosmico, anche perché Godard ha sempre seguito la via dell’autodistruzione piuttosto che della distruzione, tranne nell’ultimo atto, in cui è arrivato ad amare il prossimo suo come se stesso, non più di se stesso. L’ultimo atto fa parte della storia di un genio, per molti soltanto un nome da esibire per elitari, fa parte della storia del nostro secolo fatto di storie del cinema, perché il cinema non è soltanto contemporaneo del secolo, ma parte integrante della sua stessa idea.

Quindi, vedi ne Il disprezzo, davvero un tedesco ha scoperto Troia? Perché Godard ha fatto cinema? E davvero dopo di lui finisce il cinema del novecento? Colpevolmente e ossessivamente troppo intellettuale, prestato alla settima arte, che però del cinema ha cercato fino all’ultimo il respiro naturale, rivoluzionario e contro le regole nell’adolescenza creativa, disarmonico e meravigliosamente aritmico nell’ultimo tratto dell’esistenza. Il godardiano Bernardo Bertolucci ne Il Conformista da al professore antifascista l’indirizzo e il numero di telefono di Godard, quelli reali. Allora avrà fatto cinema, o meglio, avrà messo immagini chiare su idee sfocate e viceversa, perché semplicemente nell’Histoire(s) du cinéma avrebbe sempre promesso di mostrare storie che i film portavano con sé, troppo spesso disperse e abbandonate, sottomettendo la vita delle immagini a quella morte che è immanente al testo.

Bertolucci lo ha aspettato alla fine di una proiezione a Parigi, ma Godard sotto la pioggia d’inverno non si è presentato all’appuntamento, come al solito, come succederà ad Agnes Varda nel suo ultimo film, o meglio si presenterà senza farsi riconoscere e fugacemente lascerà un biglietto a Bertolucci con sopra un ritratto di Mao e la scritta: “bisogna lottare contro l’egoismo e l’individualismo”. La fabbrica dei sogni sovietica e quella hollywoodiana, lo Stato e l’industria sono la materia rappresentata e il principio di rappresentazione. Così il cinema del novecento finisce dopo di lui e magari oggi su quel biglietto ci sarebbe stato scritto: “Ma come piove bene sugli impermeabili e non sull’anima… mentre tutto intorno è pioggia, pioggia, pioggia e Francia (Paolo Conte).

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