Blog NET NEUTRALITY – Parlare poco, apparire meno, nello spazio, oltre i confini mediatici. Omaggio a Gianni Celati

Gianni Celati vive ancora in una di quelle storie che valgono per quello che non è immaginabile, vive in una di quelle storie in cui domina un non immaginabile che sta dietro alle parole

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Parlando poco, apparendo meno, Gianni Celati, che ci ha lasciato qualche giorno fa a 84 anni, una settimana prima dell’ottantacinquesimo, viaggiava nello spazio, in un mondo lontano dai confini mediatici. Quando nel 1990 arrivò l’invito di fare un doc sulla traversata della Pianura Padana, fino alle foci del Po, della raccolta di racconti “Verso la foce”, si avviò l’approccio al cinema e lo stretto rapporto con il fotografo Luigi Ghirri. In realtà molti anni prima aveva firmato anche una sceneggiatura su Fausto Coppi, ma la Rai bocciò il lavoro perché lo scritto era carente sul sesso, mancava la Dama Bianca. Il western la sua passione, veniva prima di tutto, anche quello italiano, ma autori come Cassavetes e Bogdanovich (altra triste dipartita di questi giorni) sbaraccavano ogni cosa, e quest’ultimo si sentiva molto vicino alla rivoluzione del cinema italiano nel dopoguerra. In Strada provinciale delle anime (1991), con parenti e amici di Ferrara ha preso la corriera verso il Po, per rifarsi un’educazione visiva. Una gita bambinesca, per allontanarsi dalla finzione. Ad un certo punto ha seguito l’imprevedibilità, il vagabondare, andare senza una meta. L’incontro con il luogo per perdersi nella naturalità. Oggi non sappiamo come guardiamo, non c’è in realtà un sovrappiù di immagini ma di icone, quindi c’è un problema di ritrovare lo sguardo, rifarsi gli occhi. Sempre più informati e sempre più ciechi. L’uomo sensibile dietro un albero vede un altro albero, dietro un paesaggio vede un altro paesaggio. È forte l’esigenza di fantasticazione, come per il compagno di viaggio Luigi Ghirri (vedi Il mondo di Luigi Ghirri, doc del 1999). La cosa più importante è quello che c’è fuori dalla fotografia. Un mondo che guarda il mondo, non c’è più differenza, non c’è più la noia di un paesaggio brutto, c’è un certo entusiasmo nell’essere qui ed ora. Proprio da far rimandare alla scrittura di alcuni suoi “protetti tradotti”, Gertrude Stein, Sherwood Anderson, Ernest Hemingway, riflettendo sull’annientamento delle esistenze individuali con stili che puntano ad indicare la distanza o il riserbo che formano la profondità del silenzio dei solitari, adottando i ritmi brevi della parlata midwestern.

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Povertà e miseria poi, la differenza l’ha scoperta in Africa, nei suoi lunghi e appassionati viaggi, oltre il bordo “fotografato” dalle mode, per giungere a Case sparse, visioni di case che crollano (2003), altro doc girato. Case che crollano tra la Via Emilia e il Po e la vera questione è la sostituzione delle stesse. Uccidere il passato, vite che crollano, sottomesse ad una cosmesi ufficiale. Il senso della profondità del tempo è diventato un tabù. Quando in Africa vedeva gente vecchia (vedi Diol Kadd. Vita, diari e riprese di un viaggio in Senegal, doc del 2010) la vecchiaia era considerata un deposito di esperienza, un incontro di un luogo con l’altrove. Oltre che naturale il suo cinema era un ribaltamento, cronologico, temporale, gerarchico, ribaltamento della camera oscura. È qui che Gianni Celati potrebbe somigliare a John Cage, non solo d’aspetto, perché ha posto in modo radicale il problema della voce nella scrittura, la voce del mondo dentro la linearità dell’alfabeto, emigrando nella fotografia e nel cinema, appunto. Ha fatto transitare il tema dell’invisibile calviniano nel tema delle città visibili (vedi il testo “Narratori delle pianure”), cercando i pensieri non in se stessi, ma fuori, nel mondo, seguendo Dante: “Poi piove dentro a l’alta fantasia…”.

Non è da considerare soltanto un grande teorico della letteratura, ma un immenso ed irraggiungibile rimuginatore seguendo la forma di appropriazione tra le più potenti, la traduzione. L’allievo di Italo Calvino, con Guido Ceronetti, anche se con soluzioni stilistiche diverse, hanno parlato, come nessuno, dell’abbandono del paesaggio, dell’inadeguatezza dell’identità locale, al sentirsi appartenenti ad un territorio, come se poi si diventasse proprietari di un luogo. Emblematico ed estenuante il corpo a corpo ingaggiato per sette anni con James Joyce e il suo Ulisse, per la propensione al soliloquio, il ritmo incalzante e al rivoluzionario metodo naturalizzante. Così Celati si è avvicinato alle neo avanguardie, sulla linea dell’invenzione linguistica. Le apparenze devono essere assemblate su un piano emotivo, mentale e fisico, per muoversi tra una realtà esteriore e una realtà interiore, attraverso un’osservazione intensa del mondo, attraverso il respiro e l’intensità della narrazione. Esplorare il viaggio lento, l’arte della lentezza che si insinua nelle pieghe del microcosmo. Questo è il segreto. Diario e narrazione insieme per un’intima compenetrazione fisica con il mondo circostante, ed in tutte e due prevale il disorientamento.
Tra i suoi capolavori, ha un posto riservato “Le avventure di Guizzardi” (1972), romanzo pazzesco, avventura picaresca, comica. Il protagonista viene rapito da una donna dagli appetiti sessuali smodati, in uno straordinario intreccio di levatura fantastica. Trae tutte le bellezze del cinema muto, grottesco, nevrotico, con un parlato difettoso, lunatico, strampalato e meravigliosamente vivo. Gianni Celati vive in una di quelle storie che valgono solo per quello che non è immaginabile, vive in una di quelle storie in cui domina un non immaginabile che sta dietro alle parole, ovunque. Vive nel suo regno in cui non ti può far vedere tutto, senza avere niente in pugno, che si illumina d’immenso ritrovando splendore nella desolazione dei luoghi dell’anima.

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