Blog NET NEUTRALITY – Pelé… et lux facta est

Quando nasce Pelé nel 1940 arriva anche l’energia elettrica nel sudest del Brasile. Il battesimo del campione è la celebrazione della luce in campo. Omaggio al genio del calcio scomparso a 82 anni

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Il telecronista carioca grida: “penàlty, penàlty…”, sono circa le 21.30 del 19 novembre del 1969 quando il calciatore più forte e famoso del mondo, Edson Arantes do Nascimento, detto Pelé, viene atterrato nell’area di rigore del Vasco de Gama. Il calciatore del Santos si appresta a realizzare il suo millesimo goal, record assoluto e probabilmente imbattibile in eterno. Dietro la porta uno schieramento mai visto prima di giornalisti e fotografi, pronti ad immortalare con parole e scatti il momento fatidico. L’eccitazione e la frenesia dei flash tradisce l’attesa di un evento storico. Con la classica divisa totalmente bianca nella notte sudamericana, Pelé, la perla nera, prende una breve e felpata rincorsa per poi gonfiare la rete. Subito viene preso in trionfo dagli assiepati lungo il perimetro del campo e alla domanda a chi vorrebbe dedicare la sua realizzazione, Pelé risponde: “a tutti i bambini poveri del Brasile…”, chinandosi sui microfoni e salutando la folla come un sovrano, come fosse, appunto, O Rey, il Re. Come quasi tutti i Re moderni, la sua corona Pelé la raccoglie dalla polvere, la polvere che si respira nel sudest del Paese verdeoro, dove nasce il 23 ottobre del 1940. Un angolo di mondo così sperduto che soltanto da poche settimane aveva ricevuto in dono l’energia elettrica. Assieme a Pelé quindi arriva anche l’elettricità, la luce moderna, ed il calcio non sarà più lo stesso. Il battesimo di quel neonato tutto nero come il carbone, diventa anche una celebrazione della luce, una cerimonia in onore di Thomas Edison, l’inventore della lampadina, al punto che i genitori di Pelé decidono di chiamare il figlio Edison, poi contratto in Edson.

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Un nome che a Pelé è sempre piaciuto molto più del suo pseudonimo, del suo nomignolo che lo ha reso famoso in ogni angolo del pianeta. Ma è proprio nell’accettazione di questa sorta di soprannome, Pelé, venuto fuori da bambino per un difetto di pronuncia e su cui l’immancabile e fastidioso compagno di classe infierì, non perdendo tempo ad affibbiarglielo, che il campione si fa atleta moderno, non solo per le doti mostrate sul rettangolo di gioco, ma anche nella cura e nell’esaltazione della propria immagine e del marketing. Grazie alle capacità pragmatiche, manageriali e a tratti caratteriali megalomani, Pelé accolse e fece fruttare al massimo il nomignolo, così facile da pronunciare e così orecchiabile in tutte le lingue del pianeta. Pelé veniva fuori dalla storpiatura del nome di un portiere che giocava nella squadra del padre di Edson, al quale lui era molto affezionato e legato. Tant’è che Pelé amava stare in porta, avrebbe probabilmente voluto fare il portiere. Per ben quattro volte negli anni ‘60 con il Santos ha giocato tra i pali, sostituendo il titolare della sua squadra e della Nazionale, Gilmar, la giraffa. Ma chi sa giocare a calcio sa anche fare il portiere, ruolo in cui hai tutto il campo davanti e quindi hai già la partita che ti scorre in anticipo di qualche attimo, quell’attimo catturato che ti rende davvero speciale, geniale. Anche perché il primo lavoretto di Edson fu quello di lustrascarpe, sciuscià, quindi qualcosa che tenesse impegnate le mani per curare i piedi.

Nel 1950 quando il Brasile perse in casa la finale mondiale contro gli acerrimi rivali dell’Uruguay, Pelé vide piangere di dolore per la prima volta suo padre e vide tutto il Paese cadere nella depressione più nefasta. Pelé allora promise a se stesso e al padre che un giorno avrebbe portato il Brasile sul tetto del mondo. La storia di quella finale è stata raccontata memorabilmente da Osvaldo Soriano, finale che rappresentò per il Brasile la più grave disfatta del dopoguerra provocando un’ondata di suicidi. Pelé sarebbe riuscito a mantenere quella promessa nel 1958, a soli 17 anni, per la prima delle tre volte in totale, l’ultima nel 1970, altri record imbattibili. Pelé diventa patrimonio nazionale del Brasile, e per lui sarà impossibile abbandonare il Paese e accettare le lusinghe straniere. Aveva già firmato per l’Inter di Angelo Moratti, ma il presidente italiano dovette stracciare il contratto perché si stava scatenando una vera e propria rivolta sociale. Pelé è ormai diventato un marchio ed esporta il talento brasiliano nei cinque continenti. Il Santos si trasforma in una sorta di attrazione internazionale, un po’ come gli Harlem Globetrotters nel basket. Cifre alla mano, ha disputato mediamente una partita ogni cinque giorni, senza soluzione di continuità e al netto degli infortuni. In questo modo ha anticipato il ruolo di ambasciatore del calcio che poi si è ritagliato ufficialmente a fine carriera in giacca e cravatta. È stato messo sopra la coca-cola e Gesù Cristo. Lui ha sempre dichiarato, in un misto di vanità e modestia, che lo ha sempre contraddistinto, di non poter essere d’accordo perché cattolico e quindi un paragone del genere sarebbe risultato blasfemo. Aggiunge però: “d’altronde se la coca-cola risulta essere famosa per le sue campagne pubblicitarie, Gesù Cristo in alcuni luoghi del mondo, tipo in Asia, non è famoso quanto me”.

In effetti qualche miracolo Pelé l’ha pure fatto. Nel 1967 effettua con il Santos una tournée in Nigeria, all’epoca sconvolta da una sanguinosa guerra civile. Le due fazioni in lotta stabiliscono una tregua di 48 ore per poter raggiungere lo stadio a Lagos e ammirare quel fenomeno in pantaloncini. Un altro miracolo, poco tempo dopo, in Colombia. Pelé viene imprevedibilmente espulso e la folla, accorsa solo per lui, si rivolta contro l’arbitro, s’infuria così tanto da cacciare proprio l’arbitro in modo tale da far rientrare il campione brasiliano. “Vavà, Didì, Pelé, tre giocolieri di cioccolata nel verde regno del caffè…”, cantava il Quartetto Cetra. Nel 1962, ai mondiali cileni, Pelé s’infortuna all’inguine nella seconda partita della competizione. Anche qui succede qualcosa di magico. Non potendo essere sostituito, Pelé è costretto a restare in campo, pur non essendo in grado di continuare la gara e pur dovendo trascinare la gamba sinistra. La palla gli arriva al limite dell’area cecoslovacca e lui la controlla maldestramente, il difensore avversario si blocca a pochi metri, sarebbe un gioco da ragazzi sottrarre il pallone al più forte giocatore del mondo, ma il difensore non si muove, guarda Pelé, tutti trattengono il fiato e guardano il pallone abbandonato a mezza strada, tra il ceco ed il claudicante. È l’istantanea del timore, del panico, del rispetto assoluto per il Re ferito. Pelé da un calcetto al pallone per metterlo in fallo laterale, poi si volta e si mette a piangere. Mondiali finiti, Brasile campione ugualmente. Nel 1970 l’ultimo acuto del fuoriclasse ineguagliabile.

Ai mondiali in Messico, il Brasile è campione contro l’Italia di Facchetti, Mazzola, Rivera, Riva. Saltare è sempre stata la massima specialità di Pelé. Saltare in dribbling gli avversari, saltare anche più in alto, come in finale. Un arco in tensione, piegando la testa e colpendo il pallone così forte da sembrare una pedata. Non è difficile segnare tanti goal come Pelé, difficile è segnare un goal come Pelé. Ma se c’è la rovesciata hustoniana a fugare ogni dubbio sul goal più immaginifico, la Ginga dei colpi d’attacco, le schivate difensive, e le acrobazie geometriche si fa luce in un’azione in cui il goal non arriva in realtà, il pallone lambisce il palo, il limite terreno a cui Pelé ha voluto sottostare. Contro l’Uruguay, la stessa nazionale che fece piangere il papà nel 1950, Pelé si inserisce perfettamente al centro della difesa avversaria, il passaggio è un po’ più lungo, al limite dell’area sta per affrontare il portiere in uscita, Pelé senza toccare il pallone, ma facendo una finta di corpo impercettibile, al momento giusto, lascia sfilare il pallone verso destra e lui incrocia la traiettoria andando verso sinistra, con il portiere rimasto in mezzo, in balia di un altro miracolo di danza, di luce e ombra, di vedo e non vedo. Pelé, aggirato il portiere, va a riprendere la palla che per incanto sembra attenderlo, sembra rallentare il rotolamento dalla parte opposta, calcia in diagonale e stavolta i sogni si perdono sul fondo inspiegabilmente. Un meraviglioso non goal è l’emblema di colui che amava moltiplicare tempo e spazio.

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