CANNES 67 – Hermosa juventud, di Jaime Rosales (Un certain regard)

hermosa juventud

Nel raccontare la disperazione della vita quotidiana di due ventenni, Rosales punta su due forme possibili di realismo. La prima è mediata dal suo sguardo. La seconda, invece, punta all’annullamento del filtro, all’affermazione della soggettività degli attori/personaggi, con tutta la massa delle immagini da loro prodotte e consumate

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hermosa juventudLa disperazione della vita quotidiana di due ventenni della periferia di Madrid. Natalia e Carlos si amano, ma il futuro non sembra promettere nulla di buono. Le famiglie sono allo sbando, il lavoro è poco e, quando c’è, è sottopagato, l’ambiente non aiuta. Presi dalle difficoltà materiali, dallo sconforto e dalla noia, i due ragazzi come possono salvare il loro rapporto? Cercano di tirare avanti, di racimolare due spiccioli nei modi più vari, provando persino la strada del porno. Ma quando Natalia resta incinta, la faccenda si complica. Decisa a tenere il bambino, non può far altro che provare a cambiare vita. Ma fino a che punto?

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Jaime Rosales, al suo quinto lungometraggio, affonda lo sguardo nella desolazione di una bella gioventù soffocata dalla depressione economica ed esistenziale. Sembra stabilire quasi un prezzario dei rapporti, come se si fosse entrati nell-epoca della prostituzione obbligatoria. E il suo sguardo non sembra disposto a concedere nulla al sogno o all’illusione, pur rifiutando, giustamente, di scivolare nel patetismo o nella denuncia. I suoi personaggi, nonostante tutto, riescono a conservare parte di quella strafottenza e voglia di libertà dei loro vent’anni. Anche se la spensieratezza cede progressivamente il campo a una durezza senza sorriso. Il che vale soprattutto per Natalia, il personaggio su cui il film si concentra maggiormente, quello che disegna una vera parabola, grazie anche al supporto fondamentale dell’interprete Ingrid Garcìa-Jonsson.

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Rosales, regista che sempre cercato di inventare a ogni film un linguaggio adatto a quanto voleva raccontare, traccia qui un doppio binario lungo cui far scorrere due forme possibili di realismo. La prima è mediata dal suo sguardo, incanalata in una messinscena sporca ma controllata, che gioca sulla spontaneità del suono in presa diretta e i traballamenti della macchina a mano. La seconda, invece, punta all’annullamento del filtro, all’affermazione della soggettività degli attori/personaggi, con tutta la massa delle immagini da loro prodotte e consumate, foto, videogame su smartphone, conversazioni via skype. Persino una serie di messaggi su whatsapp è, correttamente, considerata un’immagine, buona a definire uno stato di emozioni e sentimenti, o meglio un divenire, un’evoluzione nel tempo. Il cinema è davvero dappertutto, espanso nella vorticosa orizzontalità del mondo 2.0. E non si tratta tanto di capire quanto vi sia di convenzionale o di sperimentale nel modo di procedere di Rosales, di pesare il grado di ortodossia o innovazione del suo stile. Perché, seppur con valenze e implicazioni diverse, entrambi i linguaggi adottati corrispondono ormai a una percezione diffusa, appaiono comuni, modalità altrettanto valide di espressione della realtà. Appunto: espressione. Perché il filtro del punto d’osservazione permane comunque, a meno che non si scelga di dimenticarlo per pura convenzione. Tutto oggi si esprime in immagine, la materia stessa si è trasformata in immagine (il porno è il nuovo, inevitabile dominio, una presa d'atto più che una scelta?). E, allora, stabilito il presupposto, si tratta di capire fino dove si può o si ha voglia di accettare e condividere tanta disperazione.

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