Catching Fire: the Story of Anita Pallenberg, di Alexis Bloom e Svetlana Zill

La grande modella, attrice e musa dei Rolling Stones riprende “vita” in questo documentario che mescola tantissimo materiale di repertorio, ricordi e testimonianze. Best of 2023.

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Mi hanno detto di tutto: mi hanno chiamata strega, puttana, assassina“. La voce di Scarlett Johansson rianima le memorie autobiografiche e mai pubblicate scritte da Anita Pallenberg, una delle icone capaci di cambiare il look e l’immaginario femminile tra gli anni ’60 e ’70. Il ritrovamento postumo dei figli Marlon – anche produttore esecutivo – e Angela di questo diario privato è il punto di partenza di un documentario che omaggia la dimensione poetica di Pallenberg e ne racconta la vita straordinaria e drammatica: l’attraversamento della cultura pop e delle sue capitali (New York, Londra, Parigi) nei momenti cruciali del ‘900, le turbolente relazioni sentimentali con Brian Jones e Keith Richards, la dipendenza dall’eroina e alcune tragedie private come la perdita del terzo figlio Tara, di soli 10 mesi. Non si celano quindi gli angoli oscuri psicologici e i fallimenti della vita della donna, che si intersecano ai successi, alle esperienze culturali e artistiche vissute e alimentate, al grande gusto “chic-rock bohemien” come lo definisce in un intervento Kate Moss, grande amica ed estimatrice di Pallenberg. E quindi questo Catching the Fire diventa una specie di controcampo alla storia dell’arte e del pop tra moda, rock n’ roll e cinema. Quest’ultimo viene rievocato nelle sequenze tratte da Barbarella di Vadim, Dillinger è morto e soprattutto Vivi ma non uccidere di Volker Schlondorff, il film presentato a Cannes nel 1967 con cui Pallenberg si lanciò come nuova diva degli anni ’60, quasi una sorta di anti-Jane Fonda, prima che la morte di Brian Jones e la famiglia costruita con Keith Richards la allontanasse dalla carriera, avvicinandola a esperienze sempre più estreme di droga e alcolismo.

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Il documentario è sorretto da un ricchissimo repertorio di immagini amatoriali e primi piani della protagonista, quasi a voler calamitare la sua bellezza e il suo carisma. Poi ci sono le testimonianze dei figli, degli amici e la voce registrata di Richards che ricorda il passato e l’immagine di Pallenberg. Certo, la vita “con gli Stones”, conosciuti durante un concerto a Berlino nel 1965, rischia di fagocitare il progetto rispetto ad altri elementi potenzialmente interessanti, come la precoce relazione con Mario Schifano ad esempio, relegata a veloci scatti fotografici in bianco e nero, oppure tutta l’ultima parte della vita di Anita, quella della rinascita, della disintossicazione, di un rapporto riconciliato con gli errori del passato e con il mondo dello spettacolo, che viene attraversata forse troppo velocemente. Il film delle documentariste Alexis Bloom e Svetlana Zill sembra quindi ossessionato, soprattutto, dal riattraversare l’età dell’oro della donna e la sua “relazione” con Jones, Richards e Jagger. Emerge la sua influenza sulla composizione di capolavori come Gimme Shelter, You Got the Silver e You Can’t Always Get What You Want. Pallenberg qui è vista e raccontata come un vero e proprio membro della band, una presenza intellettuale e quasi manageriale (si veda tutta la parte sulla lavorazione “drogata” e notturna dello straordinario Exile on Main Street registrata nella residenza estiva francese di Pallenberg e Richards). Resta alla fine la passione e il merito di un’operazione che riesce a ridare vita alla modella e attrice e a ricollocarla nella storia della pop art.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5
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Il voto dei lettori
4 (2 voti)
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