#CinemaRitrovato2020 – Il mestiere dell’attore. Incontro con Stellan Skarsgård

Stellan Skarsgård, ospite del Cinema Ritrovato, si racconta in una masterclass sul mestiere dell’attore e sulla relazione di potere con il regista

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Stellan Skarsgård è stato ospite del Cinema Ritrovato per presentare in anteprima mondiale Last Words di Jonathan Nossiter e per partecipare a un incontro con il pubblico moderato dal regista e amico di lunga data, che l’ha diretto vent’anni fa in Signs & Wonders insieme a Charlotte Rampling. I due si scambiano subito uno sguardo di complicità che non può supporre la finzione e che anticipa l’argomento che verrà trattato.

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Nossiter: Il mestiere dell’attore è uno dei più fraintesi; ricordo che una volta me ne hai parlato a proposito del tuo film con Bo Widerberg. Avevi 18 anni, era il tuo primo ruolo?

Skarsgård: Ne avevo trenta. Il mio primo ruolo è stato in Strandhugg i somras, una sorta di commedia romantica-soft porn ambientata negli anni ’60-70. Doveva essere divertente e non lo era, e non era neanche sexy. Per tornare a Widerberg, è stato il regista che mi ha insegnato più degli altri cosa significa fare l’attore. Eravamo sul set e ci ha detto: “so che sapete fare questo mestiere ma voglio vedere quanto cazzo lo sapete fare bene”. Perché al cinema, a differenza del teatro, si può non essere professionisti ed essere ancora migliori se si capisce esattamente cosa si deve fare e cosa si deve dare alla parte che si interpreta. La macchina da presa percepisce la tecnica di un attore quindi la grande fatica è cercare di dissimularla, di nasconderla. Vengo dal teatro – ho iniziato con un gruppo di non professionisti – e a sedici anni ho fatto la mia prima serie per la tv; poi non ho frequentato una scuola di recitazione ma ho lavorato per il Teatro Reale Drammatico di Stoccolma. Qui ho interpretato parti piccole e grandi cercando di rubare il più possibile dagli attori con più esperienza, cancellando le tracce man mano che rubavo cosicché non potessero vedere cosa avevo sottratto loro.

Nossiter: Hai anche lavorato con Bergman. È stato divertente?

Skarsgård: Ho lavorato con lui due volte, in tv e in teatro. Credo che Bergman sia stato un grandissimo artista e cineasta ma come persona non mi è piaciuta particolarmente. Comunque non andrei a cancellarlo dalla storia del cinema. Era difficile lavorare con Bergman perché c’era un senso di grande paura. Arrivavano tutti mezz’ora prima, lui era molto puntuale e arrivava cinque minuti prima; iniziava a dire delle barzellette tremende che non facevano ridere e tutti ridevano a crepapelle. Potevi sentire un senso di panico, dovuto al modo in cui esercitava il suo potere. Ha distrutto molte vite e molte carriere. Ed è stato uno dei pochi a piangere quando Hitler è morto. Bergman aveva un’idea di autoritarismo che penso facesse parte della sua personalità.

Nossiter: Il lavoro di attore è condizionato da questa relazione di potere con il regista.

Skarsgård: Se non parliamo di cinema commerciale ma di autore, allora quest’opera deve appartenere a una persona, quella persona è il regista. Ho lavorato con moti registi alla loro opera prima – ho fatto più di cento film – ma è molto importante per me non mettere pressione sul regista anche alle prime armi. Ci sono molti grandi attori che finiscono per controllare il set e questo distrugge il regista. Possiamo portare alla sua attenzione le nostre idee e i nostri suggerimenti ma alla fine deve essere sua la scelta. Il potere da un punto di vista formale non può essere associato con il rispetto: non posso rispettare un’autorità solo perché ha delle decorazioni sulla giacca, il rispetto e l’autorità vanno guadagnati. Non seguo e rispetto il regista perché è il mio capo ma perché spero che abbia una visione che possa portare il film da qualche parte e che alla fine ci sia un buon risultato.

Nossiter: Credo ci sia stata una sopravvalutazione intorno al culto dell’autore. Il regista si dà completamente per la realizzazione del suo film, ma il cinema è totalmente un mezzo di collaborazione e condivisione; per me è interessante fare un film solo se c’è un momento di scoperta e questo l’ho imparato lavorando con te.

Skarsgård: Quando vedo un film d’autore è perché voglio vedere un film di Visconti, di Bergman, tuo, altrimenti si tratta solo di televisione generica dove i registi sono un po’ intercambiabili. Credo quindi che il regista debba avere il controllo, ma è poi nel processo della creazione di un film che si stabilisce come avviene questo controllo. La prima cosa importante è che la sceneggiatura deve prendere vita e per far ciò gli attori devono avere spazio e il regista deve ascoltare tutti. Ad esempio i primi cinque film di Lars von Trier erano tecnicamente fantastici ma senza alcun senso, poi ha inventato Dogma 95 che è stato un modo per allentare il controllo sapendo comunque che lo avrebbe esercitato in fase di montaggio – quindi la cosa a cui badava di più a quel punto è che avesse tanto materiale da portare al montaggio. Le onde del destino era così strutturato che poteva essere un melodramma all’Indiana Jones e I predatori dell’arca perduta, cioè poteva diventare freddo e mentale ma lui ha lasciato molta libertà agli attori e così ha cancellato questa struttura forte. Quindi sono d’accordo con te Jonathan, è nel processo che bisogna trovare il giusto equilibrio.

Nossiter: Vedendo la scena di Le onde del destino con te nel letto di ospedale, ho pensato che una cosa è avere un proprio spazio in cui muoversi, un’altra è essere immobile a recitare; deve essere stata una grande sfida.

Skarsgård: Non è poi tanto diverso. A volte si recita e non si dice niente con il corpo. La cosa più difficile è stare lì distesi a mentire e a pensare a dove il regista metterà la macchina da presa, a come farà a vedere quello che sto pensando. In televisione è tutto molto scritto e dettagliato, e soprattutto intercambiabile: il pubblico a casa può farsi i pop-corn, cambiare i pannolini. Poi c’è il cinema d’autore che ci ha insegnato che non si possono fare tante cose mentre si guarda se non guardare quelle immagini. Ma ci sono altri modi di comunicare, ad esempio attraverso gli attori o la relazione tra loro. Una volta il grande regista István Szabó ha chiesto a Erland Josephson perché fosse così bravo nei film di Bergman e con altri registi invece no e lui ha riposto che è una questione di dove il regista mette la macchina da presa.

Nossiter: Credo che tu adesso sia un po’ troppo generoso con il lavoro del regista. Secondo me c’è qualcosa di molto più profondo che accade, e il ruolo dell’attore è molto più importante. È grazie a te che ne Le onde del destino esiste il momento più bello del film, quello che mi commuove di più. Quando abbiamo lavorato al mio primo film insieme ero molto giovane e mi erano preparato bene – avevo tutti gli storyboard, avevo pensato alle location e alle diverse angolazioni della macchina da presa – e tu mi hai detto che avevo già soffocato il film, che dovevo buttare via tutto.

Skarsgård: Bisogna prepararsi benissimo ma la cosa più importante è non intrappolare il film ancor prima che nasca, perché nessuno può immaginare cosa può accadere tra due attori quando si incontrano ed è questa l’essenza della recitazione. Molti registi amano andare sul set con gli attori prima del trucco e decidere dove sia meglio mettere la macchina da presa. Secondo me è difficile prevedere come girare prima che la relazione tra gli attori accada lì dal vivo, in quel momento. Tornando all’inizio di questa conversazione, a Widerberg, a teatro sei con altre persone e condividi lo stesso spazio ma il cinema è fondamentalmente bidimensionale, ed è più difficile tirare fuori la vita vera. La macchina da presa vede la vita vera, non la puoi ingannare. Per questo è prezioso lavorare con attori non professionisti, perché se si va sul set e si è preparatissimi credendo di fare un’interpretazione perfetta sicuramente la vita emerge in una maniera diversa perché la vita stessa è imperfetta. Non è la perfezione che bisogna cercare.

Nossiter: Questo mi ricorda che una volta Arthur Penn mi ha detto che per cercare di raggiungere uno stato emotivo profondo per sé e per gli attori doveva mettersi nella posizione più scomoda. Ripensando ai film che hai interpretato ti ricordi qual è stata la situazione più scomoda e se ti ha dato qualcosa?

Skarsgård: Non devo essere messo in una condizione di scomodità, mi sento sempre così. So che devo dominare questa situazione perché per essere liberi davanti alla macchina da presa non si può avere paura. A volte devi stravolgere la tua interpretazione per avere l’essenza della vita, lo spirito vitale. Se giri dieci ciak di una scena sempre con grande precisione e tecnicismo a volte ti accorgi che l’interpretazione è morta. A volte durante uno di questi ciak provi a muovere una sedia, a metterla in mezzo al tuo passaggio in modo che quando entri ci sia qualcosa di diverso e di più scomodo; ti devi muovere in un modo diverso e improvvisamente scopri di aver trovato la vita. Ho fatto Ronin con De Niro e prima di girare lui spesso ripeteva le battute tante volte cercando di prenderla da varie direzioni e di trovare qualcosa di nuovo. In una performance mi interessa vedere grandi ritratti di esseri umani, non mi importa poi che siano di grandi attori o di grandi attori che non lo fanno di professione.

Nossiter: Non ci crederai, ma ho visto entrambi i Mamma mia! e credo sia una delle tue interpretazioni che preferisco. E parlando di panico, com’è stato cantare delle canzoni degli ABBA in pubblico?

Skarsgård: Io non so proprio cantare e da questa paura sicuramente non è nato niente di buono. Mi sono ritrovato in studio a registrare le canzoni con Pierce Brosnan e Colin Firth davanti agli ABBA. Vi assicuro che non ho mai provato uno stato di terrore come in quel giorno. Gli ABBA comunque sono stati molto generosi, ci hanno incoraggiati e questo ci ha aiutato.

Nossiter: Possiamo chiederti di cantare Mamma mia?

Skarsgård: Certo potete chiedermelo, ma non è detto che poi lo faccia. E questo è un esempio diretto di quello che accade tra un regista e un attore sul set.

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