Dei ricordi e delle ombre (Ritorno su Il grande sogno di Michele Placido)

Michele Placido sul set de Il grande sogno
Ne Il grande sogno il respiro individuale e intimo del regista continua a coniugarsi a quello discordante del tempo “storico”, in una rilettura degli eventi che scardina, ancora una volta, la realtà e intensifica la vita, riconoscendole, con la delicatezza di una dichiarazione d’amore, la dolcezza della ribellione: la fragilità del corpo messo a nudo nell’atto stesso della simulazione

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Michele Placido sul set de Il grande sogno“Io ti porterò le ombre

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nel cavo delle mie mani”

(Antonio Gamoneda)

 

 

Il grande sogno di Michele Placido è un racconto di ombre, come quelle che popolano i sogni o i ricordi. Ombre che cercano di rivivere grazie al gioco delle immagini. Ombre che accompagnano lo sguardo, senza lasciarsi catturare. E i ricordi e i sogni traspaiono nel tempo (della messa in scena…), mentre ci rimandano l’illusione di corpi che quelle stesse ombre possono (ancora…) proiettare. E il cinema è qui a testimoniarlo. Le immagini perdono, a tratti, il loro colore, restituendosi al bianco e nero di alcuni filmati dell’epoca, come quello che ricorda la visita del presidente americano Richard Nixon a Roma nel 1969, o assumono le tonalità sbiadite di una videocamera del tempo, come nelle sequenze amatoriali realizzate da Giulio. Proprio come in Romanzo criminale, o in Ovunque sei, ne Il grande sogno, sono l’oblio, la vertigine, il desiderio, la bellezza e l’amore ad incrociarsi davanti agli occhi. Emozioni (in un senso profondamente etimologico…) che (ri)danno forma alle immagini nel presente. Per Placido il cinema sembra non poter non essere l’arte del tempo e della memoria. Dei ricordi e delle ombre. Un’arte meravigliosamente “archeologica”, non nel tentativo inquieto di voler riportare alla luce quanto non è più, bensì nel suo opporsi a un mondo assolutamente silenzioso e an-archico, ossia senza principio, senza inizio (Lévinas, ovviamente…). E qui, come altrove, il passato torna a chinarsi sul presente. O meglio si incorpora in esso. Come nell’intensa sequenza dei poliziotti che sgombrano in Sicilia i campi occupati dai braccianti agricoli, sotto gli occhi attoniti di due bambini. Occhi che incontrano, nel gioco alternato del montaggio (e del tempo…), lo sguardo paziente di Nicola, anch’egli figlio di un contadino, mentre le parole di protesta e di dissenso di Libero, rivolte all’assemblea degli studenti, lacerano il silenScamarcio e Placido sul set de Il grande sognozio. Ne Il grande sogno il respiro individuale e intimo del regista continua a coniugarsi a quello discordante del tempo “storico”, in una rilettura degli eventi che scardina, ancora una volta, la realtà e intensifica la vita, riconoscendole, con la delicatezza di una dichiarazione d’amore, la dolcezza della ribellione: la fragilità del corpo messo a nudo nell’atto stesso della simulazione (la sequenza nella quale Nicola riesce a recitare spontaneamente Shakespeare solo nel proprio dialetto). O come in quegli scatti improvvisi della macchina da presa che esce dal groviglio dei corpi per osservare dall’alto la scena: slancio verticale di uno sguardo sempre alla ricerca di una propria, altra, visione del mondo. Una traccia marcata a fuoco nel cinema di Michele Placido, come già accadeva nella poetica sequenza della corsa dei quattro amici in riva al mare con cui si chiudeva Romanzo criminale, dopo che un leggero dolly obliava una vicenda di furore e di morte; o nell’ombra vagante, sospesa ancora tra la vita e la morte, di Matteo in Ovunque sei, che lasciava spazio alla vertigine di poter (ri)vivere un’altra vita. “Parti uguali di vertigine e oblio”, per restare ancora a Gamoneda. Lo sguardo di Placido riscopre, così, attraverso la memoria, ciò che continua a vivere nello scorrere del tempo. Insegue le ombre dei corpi che si incontrano e scontrano in una luce fredda, riflessa da monumentali marmi monocromi, come quelli dell’antico palazzo dell’Università La Sapienza di Roma. Sosta sui volti, cogliendone le sensibilità. Rimette in questione la libertà in quel pensiero autonomo e autogestito che reclamano i giovani studenti. Intesse uno stupendo e commovente racconto sull’ambiguità dell’amore, sulla fraternità e sulla filialità. E il suo sguardo non si preclude nessun movimento, fino a girare su se stesso per seguire il movimento circolare della vita stessa: “Ancora giro dentro me stesso sebbene so che cadrò nel freddo del mio stesso cuore”.

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