Demon Slayer: il treno Mugen, di Haruo Sotozaki
Ha tutti gli ingredienti di un racconto di avventura. Non inventa nulla, ma costruisce, come mai prima d’ora, una connessione emotiva tra il suo universo narrativo e il pubblico di riferimento
È dai tempi de La città incantata che in Giappone non si assiste ad un fenomeno mediatico così capillare come Demon Slayer: il treno Mugen, capace di estendere la propria influenza culturale non solo sul suolo nipponico (dove è divenuto il maggior incasso mai registrato al box office giapponese, scalzando dalla vetta, per l’appunto, Miyazaki), ma anche in Occidente, sulla scia del consumo ipertrofico degli anime. Alla tradizionalità del racconto d’animazione – lungometraggio dalla storia autoconclusiva, senza legami con prodotti pregressi – si sostituisce qui non solo una transmedialità di narrazione (il mondo narrativo si disloca tra manga, serie tv, videogiochi, lungometraggi), ma anche una progressiva sequenzialità tra tutte le opere. A decretare il successo del film interviene, allora, un inedito aspetto produttivo, dal momento che la storia di Demon Slayer: il treno Mugen non è semplicemente ambientata nell’universo narrativo della serie, ma ne costituisce il naturale proseguimento, rendendo narrativamente “canonico” un prodotto che un tempo sarebbe stato “collaterale”.
Il film, di conseguenza, inizia in medias res, laddove è terminato l’arco conclusivo della prima stagione televisiva. I protagonisti Tanjiro, Inosuke e Zenitsu – membri della squadra “ammazzademoni” deputati a liberare il mondo dalla presenza di creature mangiauomini – si ritrovano sul treno Mugen insieme al formidabile spadaccino Rengoku per evitare che una temibile figura demoniaca si cibi dei passeggeri. Attraverso la reiterazione dei codici narrativi e rappresentativi del battle shonen – visione dicotomica del mondo, dove i buoni (gli umani) e i cattivi (i demoni) collidono in un’escalation di sequenze d’azione viscerali ed esteticamente appaganti – Demon Slayer: il treno Mugen articola una narrazione lineare, semplice, senza pretese di complessità. Non inventa nulla, perché non ne sente la necessità. Quello a cui tende è la costruzione di una connessione immediata con lo spettatore che rifletta il senso alla base dell’operazione produttiva. Nel presentare il proseguimento narrativo della serie, il film, di fatto, non comunica con lo spettatore generalista, ma con il pubblico di Demon Slayer, al punto da posizionare Tanjiro nel ruolo di arbitro intradiegetico. Egli non è semplicemente il protagonista di cui seguiamo le vicende, ma è il referente primario della narrazione, lo specchio emotivo che riflette necessariamente i pensieri e i comportamenti degli spettatori. Ogni sua azione, infatti, è un segnale lanciato al pubblico di riferimento (prevalentemente bambini giapponesi). Se Tanjiro piange, piangerà anche il suo pubblico; se urla, esso reagirà di conseguenza. Non c’è alcuna distanza, né oggettività di racconto, ma solo un reiterato e potente dialogo tra ciò che avviene sullo schermo e la conoscenza condivisa che il pubblico ha di quel mondo.
E poco importa se nell’ultimo atto di Demon Slayer: il treno Mugen si assista (letteralmente) al collasso del linguaggio filmico – la mezz’ora finale, incentrata sul combattimento tra Rengoku e il demone Akaza, si dipana tra urla, gemiti, strepiti, pugni, colpi mortali, in analogia all’epilogo di Non aprite quella porta (ma senza l’atmosfera da incubo) – o se il film fatichi a raggiungere le vette estetiche dei coevi Belle o Evangelion, risultando, inoltre, di difficile accesso ai neofiti. Perché (quasi) mai prima d’ora, siamo stati testimoni di una tale sovrapposizione di aspettative, attese e coscienze, tra un prodotto mediale e il suo specifico pubblico di riferimento.
Titolo originale: Kimetsu no Yaiba: Mugen Ressha-Hen
Regia: Haruo Sotozaki
Voci: Natsuki Hanae, Akari Kito, Hiro Shimono, Yoshitsugu Matsuoka, Satoshi Hino, Takahiro Sakurai, Daisuke Hirakawa, Akira Ishida
Distribuzione: Nexo Digital
Durata: 117′
Origine: Giappone, 2020