Digressioni che si fanno Storia: incontro con Enrico Ghezzi

Il cinema ha contribuito a riarticolare le categorie mentali con cui viene affrontata la realtà. Mettendo poi in forma le sue soluzioni, esso ha anche offerto ulteriori schemi mentali con cui osservare il mondo. In questo senso, ha pensato le cose e le ha fatte pensare.

(Francesco Casetti, L' Occhio del novecento)

 

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Ogni riflessione/digressione dell' eccentrico critico cinematografico Enrico Ghezzi, ospitato, come ogni anno, presso la Scuola di Cinema Sentieri Selvaggi, di fronte ad un uditorio di cinefili assai curiosi e concentrati (ci si può sempre aspettare di tutto...), sembra prendere sempre e comunque avvio da una concezione del cinema come “lente”, occhiale (oggi, occhialetto per il 3D) ormai incollato sul nostro naso che ci regala una chiave d' accesso per qualsiasi ragionamento, ci offre nuovi “schemi mentali con cui osservare il mondo”nella sua totalità frammentata, fluida, senza confine alcuno tra materie, argomenti, tra ciò che è attinente al discorso e ciò che non sembra esserlo affatto.

La Storia è nelle digressioni”, diceva la protagonista di una storia “fluida per eccellenza”( Une histoire d'eau, Jean-Luc Godard, François Truffaut, 1958), ed è proprio a Godard (culturomane e traboccante di riferimenti almeno quanto lui) che continuamente il nostro critico si riallaccia nei propri flussi di coscienza intorno alla domanda (volutamente) fumosa: “Dov' è finito il cinema?”. Ci si chiede: può il peso fisico ed economico del cinema modificare radicalmenete il valore simbolico e culturale di quest' ultimo? Se la rivoluzione digitale consente al cinema di “dimagrire” in tutti i sensi (niente più supporto fisico della pellicola e dunque la possibilità di un cinema davvero low-budget), questa democratizzazione senza controllo porta però ad una frammentazione così capillare da non rendere più identificabile un corpo cinematografico né un luogo del cinema: il cinema è ovunque ed è di tutti? Quindi non è da nessuna parte e di nessuno? Se un filmato su YouTube, frammentario, parziale, qualunque (quindi contemporaneo per natura), finisce con l' avere più visualizzazoni di un Mainstream, perchè continuare a fare il Cinema, obsoleta forma di comunicazione unidirezionale e non interattiva?

L'innovazione tecnica (Avatar come referente principale) tenta una mediazione attraverso “L'effetto yo-yo”, evoluzione dell' originario tentativo, da parte dello schermo, di invadere la sala per poi, inevitabilmente, ritrarsi al proprio posto, ma la fascinazione, nonchè la base teorica del Cinema, risiedono, secondo Ghezzi, proprio nella chiusura, inaccessibilità dello schermo, e se ciò non significa affatto negare le possibilità e l'importanza delle innovazioni tecniche, significa però, al contempo, rivendicare il valore di un “Avatar in bianco e nero” dove, appunto, le ali dell' immaginario personale si spalancano proprio in virtù della distanza, non dell'avvicinamento, e dove “il film più ariostesco della storia del cinema” si riappropria della naturale, intrinseca maieutica dell' immaginazione, indipendente, secondo il nostro, dalla terza dimensione.

Eccola, la digressione che si fa Storia: ci racconta di un trucco presto abbandonato, in cui una pellicola molto resistente veniva impressa e poi proiettata a velocità maggiore dei canonici 24 fotogrammi al secondo, e forniva in tal modo un effetto quasi tridimensionale, cioè talmente realistico da suggerire profondità, concludendo con un'ironica considerazione sulla percezione sensoriale in generale, allusione ammiccante che dimostra, senza bisogno di spiegazioni, come il suo sguardo passi interamente attraverso le categorie mentali che il Cinema ha offerto all' interpretazione del ventesimo secolo, ma che funge anche da spassionata, sintetica dichiarazione d'amore per un Cinema di celluloide: “Forse la realtà stessa è questione di frequenza di istantanee, così rapide che non cogliamo gli stacchi”, bisbiglia a mezza bocca.

Insomma, all' interno degli spunti critici che offre lo "sguardo attraverso l'ottica digitale" sembra muoversi con disinvoltura, ma dopo aver sottolineato, malinconicamente, quanto sia significativo che proprio nell' anno di Avatar sia morto Rohmer, non proietta Cameron, proietta Rohmer.

 

 

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