EURO 2020 – Home Sweet Home

Home, finestre, rete, tutto torna… a casa. La modernità del calcio e della sua filosofia aveva puntato tutto sulle metropoli: il futuro del globo però non potrà che essere domestico

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La bellezza non si associa al nostro calcio, meglio brutti e cattivi, o meglio ancora, brutti, sporchi e cattivi. Molti italiani la pensano così e questa nazionale di Mancini sta lasciando tutti spiazzati, a volte interdetti, perché non si è proprio abituati a ricevere complimenti sulla qualità del gioco espressa, anche dagli avversari storicamente avvezzi a ritenerci fautori di scarsa propensione allo spettacolo. Quindi se due bambini di 10 e 12 anni della provincia di Rimini sono stati interrogati in caserma per essere entrati in un immobile disabitato dove, avrebbero spiegato i piccoli, era finito il pallone con cui stavano giocando, allora ci attendono (secondi) tempi duri, molto più complicati. Sono entrati da una finestra aperta, un vicino li ha visti e ha avvisato il proprietario, che non ha esitato a denunciarli.

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Home, finestre, rete, tutto torna… a casa. La modernità del calcio e della sua filosofia aveva puntato tutto sulle metropoli: il futuro del globo però non potrà che essere domestico. Abbiamo bisogno di pensare la casa, giocare in casa, con il pubblico: viviamo nell’urgenza di fare di questo pianeta una vera e propria dimora, o meglio di fare della nostra abitazione un vero pianeta, uno spazio capace di accogliere tutte e tutti. Al progetto moderno di globalizzare la città si è sostituito quello di aprire i nostri appartamenti per farli coincidere con la Terra. La casa contemporanea è una sorta di caverna platonica, una rovina morale di un’umanità archeologica. Ed è solo rivoluzionando il modo in cui diamo forma e contenuto a questa esperienza che potremo fare di nuovo del mondo uno spazio possibile di felicità comune e condivisa. Qualche traccia sul suolo non è mai innocente: disegni un campo, uno spazio dove giocare, dopo un po’ arriverà qualcuno, un arbitro, a dire: “tu di qua e tu di là. Quanti siete? In 22? Non ce n’è più spazio per giocare. Gli altri? Disegniamo un secondo confine… ecco, qui potete stare ma pagando e solo per guardare…”. Ci chiameranno spettatori. Ma non illudiamoci un giorno di poter toccare palla. Non fa per noi.

E tutti gli altri? Potranno dormire in un cartone all’ombra dei muri che segnano il confine, finché non passeranno i signori delle pulizie. È questo lo spazio generato dalla immaginazione, lo spazio auspicato dalla nazionale di Mancini, a caccia di tartufi con PosteItaliane. È lo sforzo di adeguare i suoi interpreti a ciò che li circonda e viceversa, una forma di addomesticamento reciproco tra cose e persone. È l’estensione di ciò che cominciamo a fare nascendo: costruire intimità con quel che ci sta accanto. Ecco perché coincide con l’io, e ci dimostra che per dire io abbiamo bisogno degli altri. Anche Mancini dovrebbe ringraziare Zeman, Eriksson, De Zerbi… se la casa Europa del calcio del passato, è stata una macchina della distinzione, nel futuro dovrà diventare la disciplina collettiva della mescolanza: mescolanza delle classi, mescolanza delle identità, mescolanza dei popoli e mescolanza delle culture. Il calcio, ma d’altronde anche il cinema e tutto il mondo delle immagini, si sta trasformando oggi nello spazio domestico di una delle specie: è il contrario dell’equilibrio perfetto che sognavano i grandi padri dell’ecologia. Proprio perché ora tutti gli esseri viventi sono a casa non c’è più alcun possibile equilibrio “naturale”. Non si tratta di uscire dall’età della pietra e della casa ma di rendere le pietre e le case differenti, più sottili, più duttili, disabit(u)ando lo sguardo.

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