Fidel goes to Hollywood. Cuba e Castro nel cinema americano
Nel cinema contemporaneo quasi tutte le personalità contrarie all’establishment hanno visto in Fidel Castro un punto di riferimento se non addirittura una sorta di alter ego.
È morto a novembre Fidel Castro. A pochi giorni di distanza dall’anniversario dell’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, l’antagonista americano con cui per ben due volte tra il 1961 e il 1962 aveva rischiato di coinvolgere il mondo intero in una temutissima Terza guerra mondiale. Tra queste due morti eccellenti intercorre più di mezzo secolo, 53 anni nel corso dei quali il mondo è talmente cambiato da far apparire l’inaspettata longevità del lider maximo – 90 anni e un centinaio, o forse più, di tentativi della Cia di rovesciarne la dittatura andati a vuoto – un anacronismo antistorico.
Castro con il mondo globalizzato di oggi c’entrava veramente poco. La sua figura negli ultimi anni era ridotta a una sorta di fantasma del secolo breve e Cuba mai come in questo 2016 è parsa consapevole della fine di un’era. Una deadline che le visite di Obama, papa Francesco e dei Rolling Stones hanno certificato con una forza simbolica e mediatica epocali e che raccontano di quanto il comunismo di Cuba e di Fidel Castro siano diventati nel corso del tempo un’ossessione forse persino più “spettacolare” che ideologica.
Un articolo apparso su The Wrap due giorni fa ricorda la fascinazione esercitata dal leader cubano su alcune delle più importanti star di Hollywood, tra cui Robert Redford, Chevy Chase (“A volte il socialismo funziona, Cuba ne è la dimostrazione”), Jack Nicholson e, ovviamente, Oliver Stone, che a Castro ha dedicato ben due documentari. Forse Fidel ha incarnato quella “chiarezza” socialista che la sinistra hollywoodiana non ha mai completamente trovato nel Partito Democratico. E quasi tutte le personalità contrarie all’establishment hanno visto in lui un punto di riferimento se non addirittura una sorta di alter ego. È il caso appunto di Stone, da sempre ossessionato dal raccontare la (contro)storia americana del Dopoguerra. In JFK affida all’anticastrismo e al fallimento militare della Baia dei Porci un ruolo cruciale nel complotto ordito dai servizi segreti per uccidere il presidente Kennedy, mentre in Comandante realizza una lunga intervista “celebrativa”, criticata da molti, in cui si impegna a dare un ritratto umano e allo stesso tempo politico del personaggio. Un’empatia simile la dimostrano Emir Kusturiça e Diego Armando Maradona nel documentario Maradona by Kusturiça, dove Castro compare in poche scene ma diventa presto il punto di riferimento spirituale per il racconto del più grande e anticonformista calciatore della storia – che nel film dribbla e umilia come in un videogioco tutti gli esponenti del neocapitalismo occidentale (Blair, W. Bush, Margaret Tatcher), come fosse, anche qui, un rispecchiamento del politico cubano.
Del resto per gli Stati Uniti e per il mondo occidentale, l’isola di Cuba è stata una terra tanto inestirpabile politicamente quanto agognata e rappresentata su piccolo e grande schermo. Un luogo utopico in cui far convergere i desideri e i fallimenti dei rivoluzionari e le ambizioni etiche e narrative di alcuni importanti registi del nostro tempo. Wim Wenders in Buena Vista Social Club rende omaggio ad esempio alla sua anima musicale, mentre Michael Moore in Sicko ne racconta le virtù sanitarie, contrapponendole al sistema medico made in USA.
Ma c’è spazio anche per le grandi epopee d’autore. Prendiamo Il Padrino parte seconda, probabilmente con Quarto potere, Sentieri selvaggi e La morte corre sul fiume, il più grande film americano di sempre. Nella sezione in cui è protagonista il Michael Corleone di Al Pacino, Coppola racconta la presa di potere del popolo cubano come fosse l’incendiaria apocalisse di un mondo in decomposizione. A Cuba Michael scopre il tradimento del fratello Fredo. È la fine della Famiglia, che combacia con la fine dei monopoli mafiosi nell’isola. In parte è anche la conclusione di un tipo di Sogno americano e di una vecchia America che alla vigilia degli anni sessanta sta cambiando volto. Cuba è la scossa elettrica che modificherà per sempre i Corleone e la società americana. E da quel momento (1974) nel cinema americano diventa l’El Dorado esotica su cui fantasticare spy story e amori impossibili (Havana di Sidney Pollack, Cuba di Richard Lester) o su cui ricostruire con rigore quasi rosselliniano i meccanismi, i sacrifici e l’imprevedibilità della rivoluzione, come nel biopic su Che Guevara diretto da Steven Soderbergh, il cui primo capitolo L’argentino è interamente dedicato alla caduta nel 1958-59 del governo di Fulgencio Batista per mano dei guerriglieri capitanati da Castro e Guevara.
Qui Soderbergh tratta l’immagine di Fidel in modo esemplare. Nel raccontare il dietro le quinte della Storia, Castro – interpretato da un bravissimo Demian Bichir – all’inizio del primo capitolo è un giovane idealista e abile stratega che combatte nel fango della giungla insieme ai suoi compagni. Costruisce l’utopia un pezzo alla volta, con il realismo della statista di razza. Eppure una volta salito al potere scompare dal film. Diventa appunto un’immagine. E all’inizio della seconda parte, Guerrilla, il leader è già istituzione, icona televisiva, potere. L’esatto contrario del combattente e insofferente Guevara, che finisce morto ammazzato nell’impossibile insurrezione boliviana del 1967 (“Dev’essere dura eh comandante? Lei qui nella giungla e Fidel a L’Havana che pranza al National”). Il film si chiude con la fucilazione del Che e un meraviglioso flashback, in cui l’argentino e Castro tornano giovani, sulla barca che da Città del Messico li sta portando verso Cuba e la rivoluzione. Castro parla con un commilitone, pianifica, ed è osservato a distanza da un pensieroso Che, il quale sbuccia un arancio per un compagno alla sua destra che non vediamo. Castro è il pensiero da ammirare da lontano, mentre il Che è l’azione, il gesto pratico che aiuta l’altro.
È probabile che il mito di Castro sia stato reale solo quando è stato visto da lontano. È stata anche una questione di sogni e di sopravvivenza. E se è vero che oggi i tempi sono cambiati, presto intellettuali, registi e spettatori avranno bisogno di altri eroi… e altri “dittatori”.