FILM IN TV: "Profondo rosso" di Dario Argento

"Profondo rosso" ha imposto – con la sua folle articolazione – un'ipotesi alterata e barocca di fare cinema, senza nessuna concessione al buon senso, nessun tentativo di essere “politicamente corretti”, nessuna debolezza autoriale nei confronti dei piaceri osceni e formali della critica, nessun gioco. Giovedì 30/3, ore 24:30 Rete 4

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Come un fiume sotterraneo oscuro e rimosso, lentamente stanno venendo alla luce gli anni Settanta. Anni difficili, da allontanare, da sublimare, da saltare a pie' pari per finire nella tranquilla banalità degli anni Sessanta – pacifici e rivoluzionari, chiari e sinceri che è un piacere parlarne e starci assieme. Niente a che vedere col decennio successivo – i pantaloni a zampa d'elefante, le camicie colorate e aperte sul petto, la rivoluzione sessuale ormai avviata e piena d'incognite e di pericolose sbandate, il terrorismo arrabbiato e definitivo. Cinematograficamente, quando verrà completamente messo alla luce, questo decennio porterà con sé l'orma né di Bellocchio, né di Fellini e neppure quella di Bertolucci o dei fratelli Taviani. Sarà – assieme a Leone, forse – Dario Argento, mostro sacro d'una qualità autoriale misconosciuta e avversata o adorata e semplificata, a chiarire, con i suoi film, gli orrori, le paure e le perplessità di quegli anni. E già oggi diverte leggere le stroncature poco edificanti della critica "ufficiale" che lo bastonava selvaggiamente (almeno qui, in Italia) mentre i fanzinari lo amavano e godevano potentemente dei tragitti pericolosi ai quali erano costretti dai suoi film. E Profondo rosso finisce con lo spezzare in due il decennio, a imporre – con la sua folle articolazione – un'ipotesi alterata e barocca di fare cinema. Nessuna concessione al buon senso, nessun tentativo di essere "politicamente corretti", nessuna debolezza autoriale nei confronti dei piaceri osceni e formali della critica, nessun gioco. Di contro: qualche grossolana ironia, un allontanamento violento da un pensiero realistico e – incredibile a dirsi – verosimile, un attaccamento evidente al subconscio più spietato, una volontà precisa nel muovere la cinepresa ad esplorare il pericolosissimo campo dei sentimenti e delle emozioni umane, una disarmante capacità di assemblare tutti i materiali d'uso del genere orrorifico. Profondo rosso fa da spartiacque: accoglie le malefiche perversioni dei primi tre 'gialli' (L'uccello dalle piume di cristallo, Il gatto a nove code, Quattro mosche di velluto grigio) e scaglia avanti quelle che saranno le ossessioni dei film seguenti, dove la realtà diventa un luogo troppo stretto e, al contempo, troppo poco claustrofobico per i gusti appassionati di Dario Argento. Ridicoli i paragoni, le corrispondenze, le assonanze presunte, i rimandi tentati con altri registi: Argento pesca nel torbido delle proprie passioni. Come un amante infedele ma sensibile e voluttuoso, lascia che i propri film mostrino tutto l'amore per il cinema e, contemporaneamente, lascia che il proprio mondo si contamini con prodotti bassi, di purissimo consumo, di dichiarata attenzione alle strategie di mercato. Per questo si lascia sedurre dall'accumulazione d'idee, di proposte, di stimoli: inonda il suo pubblico di tensioni, di immagini raccapriccianti. Costruisce un bestiario di possibili uccisioni e fa navigare la sua storia all'interno d'improbabili cunicoli dove la morte arriva, puntualmente, preferendo il taglio allo squartamento. Nel giocare con le pulsioni del pubblico, usa l'acqua, gli spigoli, le lame. Si accanisce con i dettagli fino al punto di costringere chi guarda a un feticismo assoluto e perverso.

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La nostra mente dimentica ben presto di seguire i due protagonisti del film (un musicista jazz ed una giornalista in cerca di scoop) nei loro pellegrinaggi, nel loro goffo tentativo di scoprire chi e perché ha ucciso la medium straniera. Il nostro corpo finisce in un gorgo d'immagini ben più potenti della storia stessa, si fa assoggettare dalle musiche, dagli accostamenti di colore, dalla discesa negli inferi della nostra mente perversa e adolescenziale. Lascia che il nostro pensiero, scollatosi dalle categorie logiche alle quali siamo abituati, fluttui nei meandri spaventosi dell'innocenza negata. I bambini, in questo film, sono tutto. È la loro terribile storia quella che vienenarrata. È la loro voce, il loro canto notturno (la nenia che accompagna gli omicidi), sono i loro orribili disegni naïf, le imprecisioni e le rimozioni del ricordo. Nel film non c'è spiegazione sociologica né psicologica né fisiologica che tenga. E, come già detto, neppure spiegazione narrativa, ferrea logica della conseguenzialità dei fatti: solo una storia irrinunciabile, che deve e che vuole essere narrata in quel modo perché, così, riesce a smuovere sentimenti ed emozioni, perché, così, riesce ad andare al fondo delle cose nello stesso, terribile modo, con il quale, una seduta di psicanalisi, può portare alla pazzia il paziente che, improvvisamente, scopre la terribile possibilità di poter ricordare. Per mettere in movimento questo circolo vizioso e mostruoso, Argento lascia che davanti alla sua cinepresa scorrano tutti i mali, tutte le scorrettezze, le imprecisioni, le mostruosità, le demoniache ambiguità che questo mondo può proporre: come un oggetto hi-tech che esibisce i suoi stessi meccanismi, fa entrare in scena il dolore attraverso l'imperfezione del corpo, le ambiguità del reale attraverso l'omosessualità esibita, la problematicità del pensiero attraverso le capacità paranormali, il male puro attraverso la personificazione animale. E, naturalmente, l'inquietante infanzia, l'indicibile pensiero infantile, l'improponibile mistero che si nasconde nel pensiero di ognuno di noi nei primi anni di vita. Infine, le pratiche "popolari" che rimandano storicamente al male, l'uso di bambole, di espedienti meccanici, le mostruosità da fiera, da baraccone. E ancora le piazze notturne e vuote, le case di campagna, le ville maledette… Questo il contenuto.La forma, invece, gode delle abilità magistrali d'un occhio dal gusto puramente fotografico, delle conoscenze profonde date dall'amore maniacale per l'oggetto meccanico. Non c'è regista italiano che sappia godere nello stesso modo delle possibilità tecniche del mezzo. Ed è proprio il perfetto incontro tra il materiale oscuro del sentire umano e la traduzione visiva di tale magma a rendere Profondo rosso un testo tanto gustoso al palato, capace di rese diversissime a seconda dell'ottica di cui ci si arma: nessun corpo, nessuna fisicità espressa, solo un lunghissimo respiro e un gusto dovuto al fumo che entra nella gola, dilaga nei polmoni, annega il cervello. Fumo denso e, per questo, pieno di sapori, capace di ottime sollecitazioni, prezioso compagno di viaggio…

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PROFONDO ROSSO di Dario Argento (Italia 1975);
con D. Hemmings, D. Nicolodi, G. Lavia, C. Calamai;
giovedì 30 marzo, ore 24:35 Rete 4

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