France Odeon: incontro con François Cluzet

L’attore francese, nell’incontro durante il festival, ha toccato aspetti come l’arte, la sua carriera e le scelte che hanno cambiato la sua vita

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L’arte, le scelte, la letteratura, la sua carriera: molti gli aspetti toccati da François Cluzet nell’incontro con la stampa, questa mattina all’interno di France Odeon, la vetrina del cinema francese diretta da Francesco Ranieri Martinotti. In serata, sul palco del Cinema La Compagnia, l’attore riceve il “Premio Foglia d’Oro Manetti-Battiloro d’onore” per la sua carriera, costellata da oltre 100 film tra cinema e televisione. L’incontro, svoltosi all’Hotel Westin Excelsior a Firenze, è partito dall’ultima pellicola girata dall’attore, Un métier sérieux di Thomas Lilti, presentato in anteprima fuori concorso, in cui Cluzet interpreta un docente, Pierre, disilluso in una scuola media pubblica di periferia. L’attore, due volte Premio César, parla del suo mestiere fatto di cuore e generosità, ma anche di una infanzia difficile, che lo ha portato ad essere quello che è oggi.  

Se dovesse riassumere, in due parole, il senso del suo mestiere di attore, che cosa direbbe?

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«Bergman diceva: lo scopo del cinema è il divertimento. Non siamo a scuola, ci si prepara, si esce, si paga il biglietto e il pubblico desidera divertirsi, emozionarsi. Il film poi può affrontare temi complessi, formativi, o più leggeri e spensierati, o – ancora – può affrontare entrambi i temi. Prendo l’esempio di Roberto Benigni con La vita è bella: lui ci è riuscito in modo sorprendente. Ma, se ci pensiamo bene, ogni film è un’operazione commerciale che viene realizzata per divertire e emozionare il pubblico, non va dimenticato. Anche il film più celebre al quale ho preso parte, Quasi amici, racconta un problema molto grave e il pubblico ne viene a conoscenza proprio mentre prova forti emozioni davanti alle immagini…».

Ci può raccontare come si è preparato ad interpretare il ruolo di Philippe proprio in Quasi amici?

«Quando hanno portato sul set la carrozzina su cui avrei dovuto sedere, ho chiesto al regista e alla troupe di essere lasciato solo. Io amo andare in motocicletta: ho immaginato di avere avuto davvero un incidente in moto e di trovarmi su una sedia a rotelle. Questa emozione ho cercato di tenerla per tutto il film. Nel lavorare con Omar Sy poi, ho cercato di offrirgli tutto lo spazio possibile: mi sembrava giusto essere generoso con un altro attore».

A che punto era la sua carriera in quel momento?

«Beh, il successo per me è arrivato molto tardi, lentamente. Questo mi ha permesso di rimanere lucido, di non cedere alle illusioni e alle sirene del successo. Non mi sono perso nella vertigine della gloria…».

Quando ha sentito il desiderio di recitare?

«In realtà in famiglia siamo tutti degli affabulatori. Mio padre era edicolante ma si fingeva medico ed io quando ero da solo, durante il turno e mi trovavo di fronte ai clienti, mi capitava spesso di fingermi qualcuno che non ero: a volte ero zoppo, a volte gobbo. Ero già un mitomane e alla fine ho sfruttato questa eredità familiare per il mio mestiere…».

In quale momento ha scelto la strada dello spettacolo?

«Quando avevo dieci anni suonavo in un gruppo rock con degli amici, io cantavo Lady Madonna. Si suonava a casa di un mio amico e le sue sorelline mi guardavano spalancando gli occhi e questo mi ha sconvolto. A casa mia non ero abituato a tanta attenzione. Io e mio fratello probabilmente soffrivamo di mancanza di affetto e questa tenerezza, che ho visto apparire sul volto delle bambine, mi ha fatto capire che questo era quello che volevo fare. Poi la folgorazione vera e propria è avvenuta quando avevo tredici anni: sono andato a teatro a vedere Jacques Brel che recitava nell’ Homme de la Mancha. Brel piangeva e sudava. Pensavo: ma se si mette in queste condizioni i genitori lo rimprovereranno… Invece c’è stata una standing ovation che è durata venti minuti. Qui ho detto: questa gratitudine è quello che voglio, voglio fare la stessa cosa».

E quindi tutto nasce dal desiderio di essere amato?

«Sì, ma mi sono reso conto molto presto che l’importante non è il proprio io ma l’interazione fra gli attori: non sei tu che declami un testo, ma il testo nasce nell’incontro, nel dialogo, è un aspetto corale. Per me essere un buon attore è anche essere un buon partner, bisogna essere generosi: non si può recitare da soli».

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