Frankenstein Junior, di Mel Brooks

Apice delle parodie cinefile e di tutto il cinema di Brooks, riesce ad essere allo stesso tempo mimetico ed anarchico, sensuale e atemporale. In sala da oggi al 1° marzo.

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Chi l’avrebbe mai detto che per entrare nella storia del cinema comico sarebbero stati fondamentali la misura delle gag, il rispetto delle regole di scrittura, la disciplina visiva? Certo, Frankenstein Junior, di Mel Brooks, che ritorna nelle sale in una versione restaurata e digitalizzata da oggi all’1 marzo, rappresenta l’acme della brillante inventiva del regista ebreo e del suo stupendo partner in crime sia in fase di sceneggiatura che sullo schermo Gene Wilder – qui splendidamente riccioluto e con un lampo negli occhi che ad ogni inquadratura rende conto dell’infinitesimale passo che lo separa dalla follia – ma a risaltare in questa barocca e gaglioffa caricatura del capostipite di James Whale e dei suoi seguiti incentrati sulle vicende della Creatura (e del suo parentado stretto) assemblata da Victor Frankenstein è soprattutto la devozione verso un tipo di cinema fondamentale nella creazione dell’immaginario di generazioni di spettatori. In spettacolare equilibrio tra la voglia di divertirsi e quella di omaggiare la Golden Age di Hollywood del cinema horror (l’utilizzo delle stesse scenografie del laboratorio e dei materiali del set realizzate da Kenneth Strickfaden), Frankestein Junior è infatti una derivazione molto rispettosa della mitologia venutasi a creare dal romanzo di Mary Shelley. Brooks fa inizialmente leva sull’iniziale riottosità del nipote di Victor Frankenstein ad accettare il retaggio del celebre zio ma finisce capovolgendo l’assunto di partenza del film e del suo protagonista facendogli abbracciare e celebrare l’inveterata eredità pseudo-scientifica ed esistenziale del celeberrimo avo di cui ripercorre anche le fregole sessuali, una costante del cinema del regista statunitense che qui ha il fondamentale merito di non scadere nel pecoreccio di tanti altri suoi film.

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Ancora una volta il luogo dove vincere la sempiterna battaglia con la Morte ed abbattere al contempo le barriere morali – la frustrazione della libido nei confronti della laccata ma frigida moglie Elizabeth – è la misteriosa Transilvania, quella specie di enclave balcanica in cui si coagulano in una strana mistura, qui fotografata in maniera sontuosa da Gerald Hirschfeld, il proibito dell’Occidente e la magia dell’Oriente. Il razionalismo positivista di Frederick viene messo alla prova per tutto il lungometraggio venendo già turbato dall’ingresso in scena di quella che probabilmente rimane una delle spalle comiche più riuscite del cinema, ovvero l’Igor interpretato da Marty Feldman. È il gibboso aiutante infatti a rompere definitivamente l’ordino fenomenico delle cose con la sua gobba semovente e la disastrosa decisione di prendere, tra tutta la gamma di cervelli presente, proprio quello etichettato vistosamente con la dicitura “Abnorme”. Come però nelle commedie greche, l’iniziale impasse di gestione della Creatura sarà superata attraverso lo scambio di materia grigia tra l’energico freak ed il complessato scienziato che renderà migliori entrambi attraverso la contaminazione intellettuale. È questo il messaggio che “si può fare”, ed andrebbe fatto, anche oggi.

 

Titolo originale: Young Frankenstein
Regia: Mel Brooks
Interpreti: Gene Wilder, Peter Boyle, Marty Feldman, Cloris Leachman, Teri Garr, Kenneth Mars, Madeline Kahn, Gene Hackman, Richard Haydn, Liam Dunn
Distribuzione: Nexo Digital
Durata: 106′
Origine: USA, 1974

 

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
4.5
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Il voto dei lettori
3.83 (6 voti)
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